Orsi Siberiani

Il mio maestro Pasqualini, anche in classe, era a volte scosso da tremori incontrollabili.
Gli scolari lo guardavano con attenzione e qualche volta con paura, anche perché non sapevano capacitarsi di tale comportamento.
Passarono alcuni mesi, ma alla fine la verità venne a galla.
In un momento di grande chiarezza, il maestro ci rivelò il suo segreto: era stato un militare dell’ARMIR in Russia, nel 1942, e da quell’inverno fatale, quello che precedette Stalingrado, riportò delle conseguenze che lo segnarono per sempre.
Ci raccontò, in un’ora emozionante di lezione, quello che succedeva nei ridotti della sua compagnia durante il periodo che seguì il trasferimento dell’ARMIR lungo il percorso del Don.
L’inverno russo era cominciato, come l’anno prima, a metà Ottobre e da quel momento si erano rivelate le manchevolezze, le insufficienze dell’amministrazione militare per un’impresa che non poteva esser presa sotto gamba.
Le lunghe file di soldati, accompagnate dai cavalli e dai muli, si addentravano nelle campagne russe, piene di fango e già preludenti ad un altro, freddissimo, inverno.
Ma, l’esercito sovietico, in quel mese di Ottobre, non si rivelava impreparato come l’anno prima, non era la stessa cosa di quando le armate tedesche sembravano affondare come un coltello nel burro: le cose erano cambiate, e di molto.
I rovesci subiti nell’anno precedente avevano capovolto la situazione disastrosa, gli aiuti consistenti in arrivo dagli Stati Uniti e dall’Impero Britannico avevano fatto sì che i generali sovietici, non più scolaretti ignoranti dei grandi e reputati generali prussiani, fossero in realtà capaci di affrontare un nemico così apparentemente superiore.
Nel momento più difficile, più arduo per un giovane esercito impreparato come quello italiano, si attuò la controffensiva sovietica, che lanciava milioni di uomini e mezzi colossali verso Ovest.
Il maestro Pasqualini ci descrisse le condizioni miserevoli dell’esercito italiano e l’improvvisa, violentissima reazione dei Russi all’invasione non voluta e non provocata.
Apparvero improvvisamente dei mezzi nuovi, straordinari, come migliaia di pezzi di artiglieria, i famosi razzi Katyusha e dei colossali carri armati, che, per la prima volta, potevano fronteggiare quelli tedeschi.
Mentre l’inverno scendeva sul fronte della guerra, tutte queste armi provocavano letteralmente il terrore non solo fra i soldati tedeschi, ma anche fra i loro alleati, Rumeni, Ungheresi, ma anche gli Italiani, che non erano preparati a nulla di simile.
Il maestro ci raccontava però che la cosa più impressionante, quella che non lo faceva dormire di notte e gli creava continui incubi, era, alcune settimane dopo, l’apparire di una neve continua, che copriva tutto e tutti e, secondo il suo racconto, faceva sorgere di giorno e di notte dei soldati che uscivano, come fantasmi, a decine, centinaia, migliaia, vestiti di pellicce bianche, che li faceva sembrare degli orsi bianchi usciti dal nulla per azzannare il nemico.
Il maestro ci descrisse questa scena con una vivezza ed una crudezza che ci rimase nella mente anche dopo anni e ci fece comprendere la violenza della guerra.
Poi, aggiungeva che anche le armi dei Russi erano di semplice funzionamento, ma efficaci e del tutto adatte al clima che scendeva progressivamente a 20° e anche 30° sotto zero.
Molto probabilmente i nemici che lui si trovava ad affrontare erano militi che giungevano direttamente dalla Siberia, gente per cui quella neve, quel freddo e quel clima erano assolutamente abituali.
A questi ripetuti assalti dei Russi, seguì una ritirata dell’ARMIR, che si risolse in una fuga di centinaia di kilometri, ma, nella mente e nello spirito del nostro maestro, si trasformò in un incubo notturno che lo perseguitava da molti anni, non lo faceva dormire e per cui, talora, tremava anche di giorno.
Ma nel suo racconto non c’era odio, rancore verso il nemico, soltanto rispetto verso chi difendeva con tutti i mezzi la propria terra e che aveva di fronte un nemico talvolta molto crudele.
Di quegli orsi siberiani mi sono ricordato sovente nella mia vita ed ho ripensato al fatto che molto probabilmente uno di questi si è presentato, un giorno di Gennaio, al campo di Auschwitz per annunciare agli internati che la loro agonia era finita e che dopo tanti stenti avrebbero potuto tornare alle loro famiglie, se qualcosa di esse fosse rimasto.

Giorgio Penzo

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