Orsini e Mereghetti: per chi ama teatro e cinema, in libreria due novità proprio da non perdere…

  1. Un attore che fa Sold Out da più di sessant’anni…

Nell’intervista all’edizione milanese del “Corriere” (16 aprile, in occasione della prima milanese al Piccolo del suo Costruttore Solness di Ibsen) Umberto Orsini ha dichiarato che la scelta di quel testo va attribuita a un consiglio di Luca Ronconi.

La cosa non sorprende particolarmente chi abbia già avuto occasione di vedere lo spettacolo, perché in particolare la peculiarità della scelta scenografica mobile e verticale denota una netta familiarità con quelle esperienze e ricerche. Ma in qualche modo questo riconoscimento chiude un cerchio: lo ha aperto poche settimane prima la pubblicazione postuma delle Prove di autobiografia dello stesso Ronconi (Feltrinelli: se n’è scritto il mese scorso) e lo completa ora questo magnifico libro autobiografico sprizzante autenticità: Sold Out appunto di Orsini (Laterza).

Negli anni più recenti il genere autobiografico di attori (e soprattutto di attrici) di teatro ha preso notevole piede, con precisa attenzione loro rivolta sia da parte degli editori che dei lettori. Non sempre però, sinceramente, i risultati delle operazioni sono apparsi proporzionali alle attese: anche perché chi si accosti a questo tipo di “messa in pubblico” si aspetta legittimamente un duplice registro conoscitivo, attinente cioè sia alla parabola esistenziale del personaggio-autore che all’approfondimento della realtà del mondo dello spettacolo (e, segnatamente, di quello scenico) del nostro paese.

Al contrario, ad esempio, hanno funzionato in positivo -anzi, in… insostituibile, se così si potesse dire- proprio le recentissime Prove citate Ronconi. Pur essendo costituite sostanzialmente dalle riflessioni di un regista, ricche di apporti in entrambe le direzioni, le sue pagine illuminano non poco del destino comune di attori. Con particolare riguardo a un formidabile tris di loro, sostanzialmente coetanei e accomunati dalla comune frequenza -conclusa o meno che sia stata…- dell’Accademia d’Arte Drammatica fondata da Silvio d’Amico e dominata all’epoca dalla grande figura, didattica e registica, del troppo dimenticato Orazio Costa Giovangigli. Ha infatti dettato Ronconi: “I tre giovani attori del momento, in quel teatro degli anni Cinquanta, eravamo Corrado Pani, Umberto Orsini ed io”. Si potrebbe completare, volendo, il poker con l’aggiunta di Gian Maria Volonté, coetaneo dello stesso Ronconi (1933), aggiungendolo appunto ad Orsini (1934) e Pani (1936). Ma mentre gli altri tre hanno purtroppo salutato anzi tempo, Orsini è tuttora presente e attivo, pur ipotizzando nel libro che il Solness in tournée potrebbe essere uno degli ultimi se non l’ultimo suo spettacolo. Ma non è… già più vero, perché pochi giorni dopo, il Piccolo di Milano, pubblicando con esemplare anticipo il cartellone stagionale 2019-20 -che emozione scrivere per la prima volta 2020: brr…- ha annunciato che riprenderà un suo cavallo di battaglia fondamentale, l’a solo de Il nipote di Wittgenstein di Thomas Bernhard (il cui Teatro fu pubblicato in Italia dalle edizioni Ubu di Franco Quadri nel …: un testo al quale Orsini dedica un’illuminante pagina, 158/59).

Il testo dato alle stampe è il frutto ultimo di in intelligente dialogo preliminare con un discretissimo e coinvolto Paolo di Paolo. Ne sono scaturite, leggere e felici, quasi 200 scorrevolissime pagine, che illuminano in maniera assai schietta e spesso preziosa la vita personale dell’attore-autore, ma anche il passato della scena nazionale e dello schermo dentro e fuori i confini.

E’ forse onesto confessare a priori che il punto di vista qui espresso può essere di parte. All’ ammirazione tributata fin dall’adolescenza all’interprete grazie alla tv (il Tallien dei Grandi camaleonti di Zardi, ’64; la gelida intensità del suo Ivan nei Fratelli Karamazov del grande Sandro Bolchi: passato esattamente mezzo secolo…), è seguita la buona sorte recente di poterne seguire a distanza ravvicinata l’attività. Così lo si può ricordare -accedendo ai camerini per un saluto ad altro attore amico- mentre prende congedo dai presenti con borsa a tracolla e un «vado a prendere il treno» da ragazzino ottantaduenne dopo l’incredibile performance nel Prezzo di Arthur Miller (Genova, Corte, 2016). Oppure quando, già in abito di scena, viene in proscenio a scusarsi per il ritardo della compagnia (ingorgo stradale…) la sera della prima napoletana di Copenhagen (Teatro Diana, 2017: si vedano nel libro le pp. 159-161) e avverte, a discorso in svolgimento, la necessità di aggiungere due parole esplicative sul magnifico ma non semplicissimo testo, avendo potuto “pesare” a istinto, lo sguardo rivolto alla platea, la prevalenza di un pubblico non automaticamente sintonizzabile sulla necessaria lunghezza d’onda. O la recentissima dedizione mostrata nella tournée tuttora in corso, impersonando appunto Il costruttore Solness, in un’operazione ardita e meditata, i cui esiti sinceramente ci sono parsi un po’ inferiori alle ipotizzabili attenzioni (Fraschini di Pavia, 2018). Ma che forse sarebbe suscettibile di una seconda e più meditata visione, anche alla luce delle riflessioni in atto su questo spettacolo nelle varie fasi della sua preparazione, da cui prende le mosse la tessitura e che fa un po’ da motivo unificante del libro. Fa riflettere in questa direzione anche la recentissima recensione di Renato Palazzi (“domenica” del “Sole-24 ore” del 28 u.s.), che non solo definisce giustamente “magistrale” l’interpretazione del protagonista eponimo, ma sdogana in termini assai persuasi lo spettacolo nel suo complesso e la stessa regìa del giovane Alessandro Serra.

Sold Out si divide in cinque parti. Verrebbe da consigliare a chi lo leggerà di partire eventualmente dall’ultima, che non a caso s’intitola… Prime. E che parla conseguentemente dei numerosi debutti di Orsini: quello scenico, sostituendo proprio il rinunciante Ronconi (Il diario di Anna Frank dei “Giovani”, 1957); la prima collaborazione con l’amatissimo Zeffirelli (Chi ha paura di Virginia Woolf, 1963: c’era l’immensa Sarah Ferrati); la prima direzione di un grande teatro (l’Eliseo di Roma, con l’emergente Gabriele Lavia regista e il vertice de I masnadieri di Schiller: “la presenza di Monica Guerritore era una gioia per gli occhi. Un trionfo…”); le ben 250 repliche di Servo di scena con Gianni Santuccio (“uno dei più grandi attori che mi sia capitato di incontrare. L’ho amato come forse non ho mai amato nessuno”): peraltro battute dalle ben 450, in più riprese nell’ultimo ventennio, appunto di Copenhagen (“non è forse quello che preferisco, ma certamente quello cui sono più legato”); la prima intervista (con una giovanissima Natalia Aspesi allora alla “Notte”, il quotidiano milanese della sera cessato da un’eternità); la prima conoscenza con l’amico non facile Volonté; la prima “voglia di scappare” (dal Buio in cima alle scale con De Lullo e la Guarnieri); il primo film (Marisa la civetta di Bolognini con la Allasio: da lì a non molto una microparte nella Dolce vita…); le prime lacrime (per la durezza registica proverbiale proprio di Ronconi, provando il Besucher di Strauss: “Luca aveva una crudeltà sottile che ti arrivava violenta come un pugno in faccia”). Il primo tra gli amatissimi gatti, tirato su in un vicolo di Trastevere.

Il lettore giunto a questo punto avrà colto concretamente la chiave del volume, ma anche dell’uomo Orsini: serietà e generosità, schiettezza e netto calore umano. Chi conosca minimamente dall’interno l’ambiente dello spettacolo, e in particolare del teatro, sa come il fatto che un attore importante parli magnificamente, pagina dopo pagina, di tanti colleghi con una stima che suona non di maniera, sia già di per sé cosa più unica che rara. E glielo confermeranno tutte le altre quattro parti precedenti/successive (Storia; Sogni; Desiderio; Destino), con particolare risonanza delle prime due, dove Orsini narra, insieme con obiettività e con tenerezza, delle proprie tutt’altro che facili infanzia, adolescenza e giovinezza. Insistendo particolarmente sulle emozioni, anche personalissime, e non celando l’assoluta casualità, quasi involontaria, della successiva scelta professionale. Peraltro anticipata appunto da un forte coinvolgimento iniziatico e immedesimativo: l’aver assistito a una replica di Morte di un commesso viaggiatore di Miller, con la Morelli-Stoppa comprendente Mastroianni e De Lullo e la regìa di Visconti, Teatro Nuovo di Milano 1951…). Mai più immaginando che da lì a pochissimi anni si sarebbe ritrovato lui stesso a lavorare in palcoscenico proprio con tutti loro. La fedeltà a Miller ne avrebbe caratterizzata poi, in prima persona, l’intera teatrografia, appunto fino al recentissimo Il prezzo.

Non si vuole togliere a chi lo farà il piacere del leggerselo, citando i molti spettacoli e film, attori e registi che Orsini via via evoca e cita, e tanto meno i moltissimi della sua infinita parabola di titoli che lascia modestamente da parte. (Ma non riesco a trattenermi dall’evocarne, tra questi ultimi, almeno uno: l’indimenticabile commissario Spada di Notti e nebbie di Giordana da Castellaneta, 1984). Nè tanto meno mi arrogherò la messa a punto pedante di qualche inevitabile inesattezza (non corrisponde al vero, ad esempio, che i dati inerenti le prestazioni attoriali e registiche di un ventunenne Strehler nella Novara 1943 -il novarese Orsini aveva nove anni…- non sia riportato nelle relative biografie: tutte ne parlano, già dalle più remote di Gaipa e Battistini). Ma è straordinariamente vero l’episodio del viaggio decisivo e senza ritorno per Roma -alla maniera del finale felliniano de I vitelloni- incocciando in treno niente meno che l’allora vanamente aspirante alla cittadinanza italiana Orson Welles. E sono toccanti le magnifiche pagine dedicate all’irripetibile collaborazione col purtroppo nel frattempo scomparso Bobò della compagnia di Pippo Del Bono.

Chiudere un libro nuovo pieni del piacere di averlo letto non è cosa che di questi tempi capiti tutti i giorni: ne illustra bene le ragioni preliminari la sommessa ma chiarificante postfazione proprio di Di Paolo (Dietro le quinte) che forse per questo potrebbe essere opportuno… promuovere a prefazione. E scorrere prima della stessa ultima parte di cui si è suggerita l’antecedenza.

  1. … e un critico che tira al sold out da quasi trenta

Ridendo e scherzando, infatti, IL Mereghetti, nel senso ormai del maxi-dizionario, oltre che dell’identità personale dell’amico Paolo, viaggia sui tavoli o negli scaffali di tutti noi da più di un quarto di secolo: la prima edizione (in volume unico piuttosto smilzo) risale infatti, presso la medesima sigla editoriale -che non significa, lo si vedrà, lo stesso editore- addirittura al 1993. Eppure ogni sua nuova comparsa rappresenta obiettivamente, nel complesso, una novità assoluta: ecco cosa può giustificare la citazione, in proposito del volume conclusivo del capolavoro di Bacchelli (Il Mulino del Po III: Mondo vecchio sempre nuovo…).

Non so voi, ma personalmente non posso che essere soddisfattissimo di questa persistenza/innovazione. Come ebbi a dire una volta conversandone scherzosamente con l’autore, il suo acquisto sistematico (non mi sono fatta sfuggire nessuna delle tredici versioni apparse a tutt’oggi) ha costituito il miglior investimento finanziario, oltre che culturale, della mia esistenza. E’ infatti in assoluto l’unica opera, nella mia tutt’altro che striminzita biblioteca che ho maneggiato e maneggio, male che vada, almeno una volta al giorno: si può dire quindi che mai forse onere abbia potuto venire così brillantemente ammortizzato.

Talora, in passato, questo immenso work in progress pluridecennale ha dovuto segnare il passo per le ricorrenti difficoltà in cui versava la casa editrice dalla cui sigla era stato contraddistinto fin dal debutto. Nell’immediatamente precedente versione -2017- si era aggiunta l’inconsueta e un po’ paradossale procedura, in ragione della quale l’acquirente dei due ormai consueti volumi alfabetici (Dizionario dei film A-L e M-Z) normalmente acquisiti in libreria era invitato -per la prima volta- ad aggiungervi on demand il fondamentale terzo di Indici ordinandolo per corrispondenza direttamente all’editore. Espediente che oltretutto, si teme, non avrà esaltato gli sparuti librai indipendenti superstiti, ma neppure le predominanti catene della triade Mondadori-Feltrinelli-Giunti.

Questa versione 2019 salta invece a piè pari tutte le difficoltà, esibendo il nuovo logo “Baldini+Castoldi” che attesta come fruisca del vento in poppa che soffia ininterrottamente a favore del gruppo La Nave di Teseo che ha acquisito il marchio, grazie all’intraprendenza manageriale e al fiuto incontenibile di Elisabetta Sgarbi. E lo dimostra il fatto che, grazie anche alla messa in campo di una carta, se possibile, ulteriormente sottile -delicatezza nello sfogliare, please!- le pagine complessive dei tre tomi indivisibili in cofanetto siano diventate addirittura quasi 8000, aggiungendone circa 1100 alla pur fino ad allora massima versione di due anni fa. E’ un lavoro di sconvolgente imponenza, che l’autore-ideatore-coordinatore riesce a pilotare anche grazie al sapiente governo di un’équipe che viene di tempo in tempo riconfermata e innovata. Rispetto a due anni fa, persistono infatti Mazzarella, Curti, Bocchi, Stellino, Amadei, Pezzotta, Calzoni e la Persico; si aggiungono Manassero e Poltronieri. Il gruppo ha via via prodotto, continuando a emendare e perfezionare grazie anche alla collaborazione dei lettori utenti più acribici e affezionati, qualcosa come 35.000 schede di film (cui fa riscontro un elenco di ben 25.000 relativi titoli originali…), rafforzate da un indice annoverante più o meno 48.000 voci attoriali e 10.000 registiche, corredate, queste ultime, dei dati biografici essenziali -alfa ed eventuale omega…- tutte le volte che sia stato possibile individuarli. L’aver lamentato l’impossibilità di farlo anche per gli attori, come ha annotato di recente un pur assai autorevole recensore, ci è parso sinceramente ingeneroso… Si pensi solo che nel volume unico del ’93 dell’allora “Baldini e Castoldi” (dopo il fallito tentativo dell’ideatore di indurne alla pubblicazione il non agevole Livio Garzanti…) i film schedati non arrivavano ai 10.000: “ne vengono tirate cinquemila copie, se ne vendono sessantamila: un successo sorprendente”. Ed è interessante, per quanto concerne il metodo di lavoro, quanto ha precisato Mereghetti, sempre a Cristina Piccino che lo intervistava in merito per “il manifesto” (22 gennaio): “Ogni giudizio riflette la mia idea del cinema, lavoro con un gruppo di collaboratori scelti perché siamo in sintonia ma le schede le rivedo tutte io, spesso intervengo, riscrivo, sono generoso coi film, cerco di trovare una possibile qualità anche in quelle in cui il giudizio si sintetizza in poche stelle. Ci sono casi ‘controversi’ che discutiamo molto, ma alla fine le stellette sono tutte mie”.

Un’obiezione di fondo che l’inarrestabile volgere delle cose induce ormai ripetutamente a muovere all’impostazione del repertorio, è quello dell’esclusione delle serie tv: “per un motivo tautologico: si tratta di film, non di altro. Una scelta sindacabile e comprensibile” come ha annotato Mauro Gervasini su “FilmTV”. Ben 850 schede proprio delle serie sono infatti il punto di forza caratterizzante dell’opera concorrente, Il Morandini 2019 (Zanichelli), che la figlia Luisa porta avanti dopo le dipartite dei due cofirmatari e indimenticabili genitori Laura e Morando, ed è costituito dall’aggiunta di un fascicolo di aggiornamento al corpo del precedente 2018. Altra peculiarità preziosa dell’opera concorrente (per il mercato: specularmente collaborante per l’appassionato…) è il ricchissimo elenco di autori letterari e teatrali di testi alla base di film, prezioso sussidio in cui si rivela tutta l’impagabile vocazione di Morando alla completezza controllata e precisa. Certo, i film annoverati sono 16.500 nella versione cartacea e 27.000 in quella on line, che ha sostituito i dvd-rom delle edizioni precedenti. Con uno sforzo in proporzione insigne, perché ancora nella 2014 i titoli annoverati erano solo 25.400. Ma certo, come si vede, dal punto di vista almeno quantitativo non c’è obiettivamente gara, e la scelta editoriale di non superare mai nel cartaceo il limite del volume unico di poco più di 2000 pagine, demandando a digitale e rete il resto, ha obiettivamente condizionato la competitività del lavoro di Morandini. Che ha peraltro rivendicato, non smentito -nei reiterati, splendidi e cavallereschi confronti con Mereghetti che ho avuto lo straordinario privilegio di “moderare” senza che ci fosse la necessità di farlo in più di un’occasione- il merito di aver pensato per primo a una simile gigantesca e indispensabile operazione lessicografica, anche se Mereghetti riuscì a tagliare in testa il traguardo di darvi concreta forma editoriale. Morando ci ha purtroppo lasciati ormai da tempo (producendo un vuoto che una volta tanto è meramente letterale definire incolmabile!), ma chi prendesse o continuasse l’abitudine di perpetuare il confronto tra i due consultando di volta in volta le rispettive schede riguardo allo stesso film, si accorgerà che il confronto continua eccome. Poche cose sono divertenti e istruttive come raffrontare i giudizi dell’uno e dell’altro M (ME e MO, li abbrevio abitualmente nei miei appunti di home-visioni…) a proposito di moltissimi titoli che costituiscono motivo di contrasto critico. Provare per credere: ad averne il tempo e la pazienza, ci sarebbe di che costruirne un magnifico saggio di comparazioni illuminanti. E sarebbero gli strumenti critici dell’uno e dell’altro contendente ad illuminare, beninteso, non il servizio compilativo dell’eventuale saggista…

                                                   (“Diari di Cineclub”, 72, maggio 2019)

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