Pacifismo e populismo

Con l’incrudelirsi della guerra, e l’allontanarsi di una tregua, si fa sempre più difficile la condizione dell’Europa. Le posizioni dei principali contendenti sono chiare. L’Ucraina non ha nessuna intenzione di mollare, e può contare sul pieno appoggio di Biden, e degli armamenti che stanno arrivando sempre più copiosi e micidiali dagli Usa. Putin appare in difficoltà, ma ha risorse – di consenso e di uomini – che gli permettono di tenere duro, per non parlare della risorsa estrema dell’escalation nucleare, che compare sempre più frequentemente negli scenari dei principali commentatori indipendenti. Basta sfogliare la rassegna della stampa internazionale ieri sul Corriere della Sera, per vedere quanto stia salendo la preoccupazione di un impasse – e di un muro contro muro – da cui nessuno sa come uscire. In questa drammatica incertezza, Putin e Biden andranno avanti a oltranza. Ma l’Europa?

Fino ad oggi, le leadership nazionali – e quella dell’Unione – sono state unanimi nel condannare l’invasione russa e sostenere la resistenza ucraina. Ma col protrarsi delle ostilità, la partita si complica, molto. Il rischio principale da affrontare è il cambio dello storytelling dominante che si comincia a intravedere, su alcuni media e, soprattutto, in alcuni partiti e leader. Per questo primo mese e mezzo di ostilità, il messaggio è stato semplice e diretto: un capo autoritario attacca una nazione democratica, causando distruzione e migliaia di vittime innocenti. Il messaggio è stato rafforzato dalla compattezza della comunicazione e dallo straripante supporto visivo, che hanno suscitato un coinvolgimento emotivo che altre guerre recenti – anche ben più distruttive e letali – non avevano avuto. Quanto può durare questo controllo simbolico della partita?

Biden, per il momento, può andare dritto per la sua strada. Le elezioni di midterm sono lontane – anche se non lontanissime – e la sua principale preoccupazione è riuscire a calmierare il prezzo della benzina, uno dei fattori decisivi per i votanti americani. Da noi, la situazione si sta facendo più complicata. Nella sfida per l’egemonia culturale sta avanzando l’ideologia pacifista, che sembra in grado di fare leva su un potente alleato politico: il populismo. Intendiamoci. Secondo molti osservatori, dall’accusa di populismo non sarebbe esente quasi nessuno dei principali protagonisti. In primis Biden che Simon Jenkins sul Guardian accomuna a Boris Johnson nell’accusa di «machismo churchilliano». E certo non è esente Zelensky, che deve il suo straripante appeal alla serie Tv «Servant of the People», ora in onda anche sui nostri teleschermi. Populista si autodefinirebbe volentieri lo stesso Putin, anche se con un linguaggio che richiama gli archetipi di un secolo fa. Queste leadership, nondimeno, hanno usato il repertorio populista per perorare la causa della guerra. Cosa avverrebbe se fosse invece utilizzato – e strumentalizzato – per promuovere – più o meno a buon mercato – la pace?

Il primo round di questo possibile capovolgimento – è proprio il caso di dirlo – di fronte, si gioca nelle prossime tre settimane in Francia. La clamorosa rimonta della Le Pen, intenzionata ad uscire dal comando integrato della Nato, potrebbe portare a una prima drammatica spaccatura dell’alleanza europea. Per il momento, nel recupero degli ultimi giorni sembra pesare soprattutto lo sfaldamento degli altri competitor di centrodestra. Ma la incognita principale è rappresentata da quella fascia di elettorato agnostico, poco politicizzato, che potrebbe vedere in un cambio di guardia all’Eliseo con una presidente filoputiniana l’occasione per mettere fine a una guerra che sta incidendo sempre più sulle tasche dei contribuenti. Non è un caso che Macron sia stato iperattivo – quasi trenta contatti con Putin – per cercare di favorire una tregua senza però compromettere i rapporti con i propri partner.

Le avvisaglie del connubio tra pacifismo e populismo si cominciano a vedere anche in Italia. Conte appare sempre più determinato a fare di questo sillogismo la bandiera di un tentativo di recupero del suo partito e del suo elettorato, anche a costo di mettere in pericolo la stabilità del governo. E si moltiplicano i segnali che Salvini non intende restare alla finestra. Uno dei pochi dati certi di questo tragico conflitto sarà l’invasione di milioni di profughi che già premono sui nostri confini. Fermarli nel nome della pace, piuttosto che del razzismo, è una formula che potrebbe avere un grande seguito elettorale. Nel rimescolamento delle carte dell’immaginario collettivo, il ribaltamento del senso comune potrebbe riaprire le porte del potere all’avanzata populista.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 4 aprile 2022).

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