Pensierini inattuali – V – Tra “mythos” e “logos”

Nelle precedenti riflessioni “inattuali”, dopo aver posto “nero su bianco” alcuni punti d’impostazione, ho provato a sciogliere due nodi che mi sono parsi più rilevanti degli altri: l’ascesa del populismo sovranista in Occidente, con particolare riferimento all’ Italia, e il problema dell’Unione Europea nel mondo d’oggi.

Di qui in poi vorrei affrontare una serie di nodi teorici, anche filosofici, prima di “tornare a terra” – quando sarà – discutendo nuovamente di problemi politicamente rilevanti per la nostra epoca (alla luce di tali acquisizioni).

Procedo dal “mito”. Quanto sia per me importante la questione del mito l’ha qui ben spiegato la mia amica ed antica allieva Patrizia Nosengo recensendo da par suo, cioè ottimamente e al tempo stesso senza piaggeria alcuna, il mio ultimo “strano” libro, cui moltissimo tengo: “Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo[1]. Anticipo la riflessione precisando che la faccenda del mito – formalmente così lontana dai discorsi che facciamo di solito – ha moltissimo a che fare con il ruolo delle “cieche passioni” – ovviamente connesse con il nostro immaginario interiore – nella nostra vita, vuoi personale e vuoi collettiva. Abbiamo tutti grandi sogni, e talora purtroppo anche vere ossessioni, che ci riempiono l’anima, dall’ultimo analfabeta al luminare della scienza. Con ciò si è già sul terreno del “mito”, che è tante cose, ma certo è pure un grande sogno (o grande incubo), a occhi chiusi e aperti, che sembri prenderci l’anima.

Com’è noto la parolina più semplice per tradurre il termine greco “mythos” è “favola”. Ma c’è favola e favola. Il senso va molto oltre la “favola”, che pure coglie una dimensione imprescindibile nel mitizzare (come ben attestano gli importanti lavori di una grande allieva, amica e prosecutrice di Jung, Marie-Louise von Franz, che vede le favole come miti, espressione di archetipi dell’inconscio collettivo[2]).

Più in generale va ricordato che i Greci antichi, come già altri popoli indoeuropei, i cosiddetti “ariani” – insediatisi pure in India, sempre più o meno verso il 1500 a.C., provenendo dall’Europa del Nord sin dalle più remote regioni della Russia – hanno espresso in forma di miti poetici – prima e oltre che di meditazione religiosa e filosofica – le loro credenze religiose e morali: i primi, i Greci, in forma culturalmente immortale, dall’VIII al IV secolo a.C. attraverso i poemi Iliade e Odissea di Omero, ma pure attraverso gli Inni omerici, nonché attraverso i poemi di Esiodo, e poi attraverso le grandi tragedie di Eschilo, Sofocle e, in parte, Euripide[3], e in seguito, dal II secolo a.C. al III d.C., anche  in latino; i secondi, in India, in sanscrito, affiancando alla rivelazione dei Veda – comunicata dagli “dèi” ai saggi rishi – i grandi poemi epici e al tempo stesso filosofico religiosi composti tra il 500 a.C. e il 200 d.C., Ramayana e Mahabharata, di immensa mole.[4]

Qui c’è una differenza di fondo rispetto ai tre monoteismi, o “religioni del libro”(ebraismo, cristianesimo e islamismo), in cui “le storie” rivelate (dalla Bibbia al Corano), pur essendo evidentemente impregnate di miti dall’inizio alla fine, non si presentavano né presentano come miti, ma come verità tendenzialmente assolute, e storiche, del Dio rivelatore e del “popolo” o dei credenti da Lui ispirati, “verità” manifestatesi in parole e azioni espresse in momenti e luoghi particolari: tutte cose su cui c’è sempre stato poco da scherzare se si avesse cara la pelle, almeno quando i credenti delle rispettive fedi detenessero in modo totale, o cospicuo, il potere. Oggi non c’è nessuno più aperto al discutere i testi sacri, nel loro seno, degli ebrei; ed è abbastanza così, specie nel mondo protestante, anche tra i cristiani, ma in tempi di forte potere politico-religioso degli uni come degli altri non era stato così. Nel mondo islamico l’abito d’intolleranza verso “gli infedeli” dura “ancora” oggi.

Anche i miti intesi espressamente come tali, come in Grecia o a Roma o in India nell’Antichità, erano spesso una cosa serissima, ma erano pure “esplicitamente”, e “sempre”, frutto di un libero intuire, alias dell’immaginario “irrazionale”, da non prendere mai alla lettera (come invece ancora le “chiese” cristiane pretendono di fare con le storie su Abramo, Mosè, Davide e, più di tutto, Gesù Cristo[5]: per non parlare del letteralismo dei musulmani, che ruota attorno a un libro considerato “dettato” direttamente da Dio al loro Profeta)[6]. Aristofane o Plauto, grandi autori comici antichi, sui loro dèi potevano pure farsi pazze risate, anche se in tanti testi mitici – specie riferiti agli dèi ed eroi alla base dei misteri, ma pure nelle tragedie maggiori di Eschilo e Sofocle – emerge una religiosità “vera”, per quanto talora inquietante ed enigmatica (come del resto il sacro ha da essere sempre, se sia tale davvero).

Il più grande elaboratore di miti, dopo Omero ed Esiodo (e, almeno altrettanto, dopo Eschilo e Sofocle), è stato Platone, sol che si pensi ai notissimi miti della caverna o della biga alata o del risveglio di Er sulla pira (con cui si chiude La Repubblica)[7]. Tuttavia è discutibile che quelli di Platone, come del resto le parabole di Cristo, siano – generalmente – dei veri miti, confrontabili con le centinaia o migliaia di miti palesemente tali: essendo non già frutto “innanzitutto” dell’immaginario, ma di un “vero” che si ritenga di possedere, che viene volgarizzato tramite formidabili metafore di edificazione morale e spirituale. Il mitizzare di Platone, come poi del Cristo narratore di parabole, dipende dal Logos (inteso come raziocinio sovrano in Platone o come “parola di Dio” in Gesù e nei suoi apostoli “rivelatori” come Giovanni Evangelista e Paolo di Tarso); per contro il “vero” mitizzare non ha quasi mai un fine edificante, per ciò stesso “di logos”. O il “vero mitizzare” è al posto del logos, o comunque lo sussume, o, quantomeno, ha col logos un rapporto “alla pari”, ma mai inferiore.

Tra i Greci antichi la rottura con “l’immaginario sovrano” che procede per intuizioni empatiche, cioè col primato del sentire antropologico sul ragionare antropologico, sarebbe avvenuta coi sofisti e poi, più autorevolmente e irreversibilmente, con Socrate e Platone. A partire da loro sarebbe stata definitivamente realizzata la rottura con la “Grecia arcaica”, che era stata piena di senso dell’irrazionale (una Grecia arcaica studiata soprattutto da Dodds[8]). Dai sofisti, e poi da Socrate e Platone, e più di tutti da Aristotele, sarebbe iniziato il grande intellettualismo occidentale, filosofico e scientifico, che va ben oltre, e sussume, ogni mitizzare, come sussume pure ogni mera pratica razionale empirica, imponendo il dominio dell’astratto sul concreto, e persino “nel” concreto (ora in chiave spiritualistica e ora, negli ultimi due secoli o poco più, prevalentemente materialistica).

Nel mondo contemporaneo c’è però stato qualcuno che non ha visto “l’essere” – cioè la realtà in sé e per sé, il nucleo delle cose – né come Dio né come mera materia, bensì come energia creatrice, che assume “l’aspetto” di materia (o fors’anche di spirito): un’energia vitale infinita che, se non è apertamente irrazionale, è quantomeno irriducibile ai nostri criteri logici di razionalità e irrazionalità (direi che è preter-razionale). Ciò è valso soprattutto a partire da Schopenhauer, che nel secondo decennio del XIX secolo, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, ha creduto di poter definire intuitivamente, e tramite innumerevoli indizi, quel reale in sé e per sé, al di là dei limiti propri della nostra sensibilità e intelletto, che Immanuel Kant – in età che non era stata romantica come quella di Schopenhauer, ma illuministica, negli ultimi decenni del XVIII secolo – nella Critica della ragion pura aveva espresso col termine “noumeno”, inconoscibile, riferito al reale com’è al di là del nostro rappresentare, ossia al di là del rappresentabile.

Schopenhauer, così, identificò il noumeno con la “volontà di vivere”: volontà come vero essere, energia vitale che in ogni punto anela solo a vivere, comparendo e scomparendo nel continuum della vita. Tale essere come volontà, negli ultimi tre decenni del XIX secolo, sarebbe poi stato specificato dall’ex schopenhaueriano Nietzsche – nel Così parlò Zarathustra e in altre opere – come “volontà di potenza”, identificata con la naturale tensione di ogni vivente – dall’ameba all’uomo, e oltre – all’affermazione di sé. Ora è caratteristico il fatto che Nietzsche iniziò la sua grande e tragica avventura dello spirito, ne La nascita della tragedia dallo spirito della musica, poco dopo la guerra franco-prussiana del 1870, proprio con una polemica con Socrate; e ciò per ripristinare non già l’assoluto dominio del pensiero mitico su quello logico, ma il primato del primo (mitico, emozionale, irrazionale) sul secondo (logico, “oggettivo”, razionale). Il primato del pensiero intuitivo empatico, “irrazionale”, sarebbe stato ovvio prima dell’affermarsi dell’intellettualismo socratico (e poi occidentale), in una grande civiltà andata almeno da Omero a Sofocle, ossia dall’VIII al V secolo a.C., e certo anteriore a Omero stesso, ove si pensi a tutto il mondo degli Achei e pure dei loro nemici nell’Asia minore (diciamo dal 1200 o 1300 a.C. in poi). Socrate, a suo dire (nel V secolo a.C.), avrebbe preteso di subordinare il sacro, o comunque la pura vitalità e interiorità, alla nostra povera ragione “umana troppo umana”, a scapito del grande sì alla Vita come Uno-Tutto: un sì che in tutto sente il “de te fabula narratur”, che invece era stato proprio del grande ellenismo, sviluppatosi dagli Achei all’età della grande tragedia attica[9], realizzando davvero quella che un filosofo “jaspersiano” e junghiano, Umberto Galimberti, anni fa ha detto la “terra senza il male”[10]: approccio greco arcaico e proto-classico (ma preplatonico) di cui, secondo Nietzsche, Dioniso – il dio del teatro tragico, e della tragicità della vita, oltre che dell’ebbra gioia di esistere – sarebbe stato il simbolo vivo e indistruttibile. Dioniso però nei Greci sarebbe stato controbilanciato, fraternamente, da Apollo, che armonizza il caos, compone opposti che parrebbero irriducibili, e, insomma, razionalizza l’irrazionale, il vivente in sé e per sé, che sempre vuole nascere morire e rinascere, essendo in sé appunto “dionisiaco”. Con ciò “Apollo”, nel dinamismo del reale in sé e per sé, in fondo avvalora l’aforisma fulminante di Eraclito, che vedeva l’essere come “armonia dei contrari, come quella dell’arco e della lira”[11] (la quale lira è la cetra di Apollo, un po’ “diversa” dai selvaggi flauti di Sileno, il vecchio maestro e amico satiro di Dioniso, che una volta volle sfidare musicalmente Apollo, che prima lo sconfisse e poi lo scuoiò vivo).

Tale linea nietzscheana, almeno dal 1929 in poi, prosegue in Heidegger, che contrapponendo lo “svelamento” o “non nascondimento” (alétheia) dell’essere stesso – cioè l’intuizione primordiale che ad ogni istante abbiamo, quando non ragioniamo sul nostro concreto vedere – all’astrattivo “giudizio” umano (orthòtes), si riallacciava a Nietzsche, considerando Platone come il fondatore della metafisica. Quest’ultima – prima in filosofia e poi anche in ambito scientifico-tecnologico – sarebbe sempre basata sulla confusione tra conoscenza della realtà in sé e astrazioni (insomma dal modo di ragionare astratto, a misura del solo intelletto): laddove l’essere – il reale in sé e per sé – si darebbe solo percependolo: in sostanza vivendolo con tutta la nostra personalità[12], per così dire dalla nostra prima all’ultima cellula (o con tutto noi stessi in quanto siamo “carnespirito”).

Tra Nietzsche e Heidegger ci sono molti ponti importanti di congiunzione: come Bergson, che contrappone la realtà come appare all’intelletto – che sarebbe un poco il nostro martello per dominarla – alla realtà che si manifesta alla nostra intuizione empatica (intuizione che non si nutre di astrazioni, ma esprime la vitalità allo stato puro, come “dato immediato della coscienza”[13]). Quest’immediatezza intuitiva non reifica “il reale vivo” in cose, in sostanza considerate astrattamente fisse (morte), come fa l’intelletto – il che va pure bene a scopi meramente pratici, purché la strumentalità non pretenda di essere la chiave di tutta la nostra vita – ma lo percepisce come una continua esplosione vitalistica (“evoluzione creatrice”): visione “secondo Natura” che nel nostro sentire vivo si esprime nei miti vitali, in cui pensiero e passione sono una cosa sola.

Ciò, nei primi due decenni del XX secolo, ha forte eco in Georges Sorel, influenzato da Marx, ma anche da Nietzsche e ancor più da Bergson, come io pure ho mostrato[14]. Sorel giunge a vedere le grandi passioni o sogni collettivi come fondamento del divenire (mosso dagli interessi economici, ma più ancora dalle fedi vissute, ossia dalle grandi passioni dell’anima nel tempo). Tra i lettori entusiasti di Sorel ci furono i sindacalisti rivoluzionari, specie italiani. Ma ci fu anche Mussolini, sia quando lesse, ancora da socialista rivoluzionario, le Considerazioni sulla violenza con Prefazione di Benedetto Croce e lo recensì, e sia quando – ormai capo della rivolta reazionaria – alla viglia della cosiddetta marcia fascista su Roma del 28 ottobre 1922, essendo passato dal prebellico mito della rivoluzione sociale al mito della nazione – spiegava: “Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. É una realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fede, che è coraggio.” Ma Sorel fu commemorato pure da Palmiro Togliatti, già leader nazionale e internazionale del PCI, nel 1922[15]. E io anzi penso che l’uso che Togliatti fece in Italia, dal 1944 alla morte, del riferimento a Stalin e all’Unione Sovietica sia stato proprio un giocare semicosciente, ma spesso cosciente, col mito sorelliano, presentando ai militanti un Paese totalmente totalitario, e segnato da difficoltà gravi per i cittadini tutti – spesso costretti, nelle città, alla coabitazione, tra famiglie diverse in uno stesso alloggio, ancora negli anni Sessanta del Novecento, e a fare la fila nei negozi pubblici – come una specie di Paese di Bengodi, segnato da straordinari progressi sociali e civili continui: certo mentendo sapendo di mentire, con tirate ricorrenti, su Stalin e sull’URSS, che lette col senno di poi – se uno oggi si prendesse la briga di andare a ripescarle – farebbero assolutamente ridere. Ma “crederlo” faceva, o avrebbe fatto, bene al movimento operaio e socialcomunista (e tanto gli bastava), come la fede nella resurrezione di Cristo o della Madonna nella religione cristiana. Come in ogni mitizzare, il confine tra la credenza e l’invenzione era ed è labile. Credo valga anche per chi vada convintamente e regolarmente a messa. Quando fa la comunione vuol credere che Dio entri davvero in lui, che l’ostia benedetta si trasformi davvero nel corpo e sangue di Cristo (il che i cattolici dicono “transustanziazione”), ma sa pure che la cosa non è evidente, nemmeno nello slancio mistico. Potrebbe essere vero, ma “forse” anche non esserlo (e viceversa), il che è proprio del pensare miticamente. Persino chi racconti con astuzia miti, politici come religiosi, vivamente sentiti in passato o nel presente, spesso finisce per credervi (secondo un modulo che in psichiatria si chiama “pseudologia fantastica”), o finisce per sperare che la favola raccontata – in base a certi eventi o fatti o atti o indizi reali, che volendo trovarli non mancano mai, come le speciali qualità che la persona amante attribuisce a quella amata, o le speciali infamie a quella detestata o odiata; e purtroppo vale pure nella vita collettiva, con l’amore per un popolo o un modo d’essere o classe, e l’odio per un altro popolo o razza o classe, sempre segnati dall’immaginario, cioè dal “mitico”. In linea generale si può dire che ogni credenza che si basi su una grande passione interiore piuttosto che sulla ragione (o molto più che sulla ragione), sia un mito. Ad esempio ogni forma di “grande amore”, o addirittura di “vero” innamoramento (ben più raro di quanto si creda, ma comunque molto frequente), è un mito. L’amore, essendo personalissimo, sembrerebbe privo del valore universalmente umano che è proprio del mito, ma in realtà, come il mito, si basa su un dinamismo perenne. Su ciò Diotima di Mantinea, maestra in filosofia del giovane Socrate, nel Simposio di Platone ha fatto una descrizione formidabile, in tal caso totalmente conforme al “vero mitizzare”, oltre che psicologicamente e filosoficamente notevole (lì davvero in perfetto equilibrio tra mitizzare e ragionare)[16]. E non si scosta molto da tale mitizzare l’esperienza d’amore in ogni tempo, quale sia il sesso delle persone che si amano. Una persona desidera sempre stare con un’altra, sentita come carissima. Trova nella sua persona un fascino strano. Ama stare con lei. Ne ama la voce. Ne ama il conversare. Le vuol così bene che vorrebbe sempre copularla o comunque manifestarle la sua empatia godendone e facendola godere, spiritualmente e fisicamente, nelle forme più varie. (Anche se purtroppo, in tali contesti, si dà pure quello che Jung chiamava “enantiodromia”, la “fuga nell’opposto”, che può ingenerare, nell’amante deluso, o delusa, odio). La letteratura è piena di tali cose. Dante ha espresso da par suo un tale amare che segna la vita, in termini addirittura onirici e visionari, “junghiani” ante litteram, nella Vita nova, parlandoci di Beatrice, illustrando persino un grande sogno simbolico, vero mito vissuto, in modo ancor più convincente che nella Divina Commedia (in cui l’amata idealizzata diventa “angelicata”). Ma si pensi pure alla Manon Lescaut di Prévost (e soprattutto di Puccini), all’Educazione sentimentale di Flaubert o alla Strada di Swann di Proust. E più è grande la passione, come in tanti tristi suicidi o atroci femminicidi, più è inverato il mitizzare. Così – per fare solo alcuni esempi – accade nel romanzo, conclusosi col suicidio del protagonista, di W. Goethe, I dolori del giovane Werther. Nessuno ce l’ha fatto sentire meglio di Francesco Cilea, col suicidio del pastore innamorato deluso nell’Arlesiana, o Georges Bizet – che era pure stato coinvolto facendo le musiche di scena di un’Arlesiana dello stesso Daudet nel 1872 con il femminicidio in Carmen.[17]

Anche se va detto che tutti questi miti che culminano nell’omicidio o suicidio sono casi veramente estremi, perché generalmente chi pensa “miticamente” sa pure che la sua fede, per quanto grande sia, ha un che di relativo, che gli impedisce di portare alle conseguenze estreme il suo “credere”, che – come avrebbe detto un grande interlocutore di Bergson, il pragmatista religioso William James – è sempre “volontà di credere”[18]. L’innamorato o l’innamorata sono in tale stato perché hanno trasformato la persona amata in un che di assoluto, tanto che senza la persona amata spesso la vita sembra loro senza senso; ma in un angolino della loro mente sanno bene che per quanto sia grande la passione per la persona amata, la sua unicità non è veramente assoluta. Questa è la ragione per cui Hitler, che aveva convinzioni assolute e non semplicemente “miti”, nell’estrema sconfitta si suicidò, mentre il “sorelliano” Mussolini preferì, alla fin fine, dopo essere stato tentato dal suicidio nella prigionia sul Gran Sasso, di cercare di salvarsi persino travestito da soldato tedesco in fondo a un camion[19]. Si può porre il “credere” al primo posto (come nel fascistico “credere, obbedire, combattere”), ma chi procede dalla “credenza”, dalla passione, normalmente sa anche che l’assolutezza del credere non è oro colato, tanto più se non si tratti di rivelazione di “Dio” (e neppure di un che di matematico o di fisico-matematico, o di biologicamente oppure economicamente “certo”, che poi per il pensiero critico oggi non lo è pressoché mai). In sostanza la ragione senza passione, senza fortissimi sentimenti che l’accompagnino, è un atteggiamento da poveracci senz’anima, intimamente cinico e criminale, che per il potere preteso come il solo vero o per il solo vero da portare al potere passerebbe sul cadavere della madre, spesso tipico dei peggiori stalinisti o nazisti; ma la passione senza ragione può portare, in caso di sfortuna, all’omicidio o al suicidio (a livello individuale come collettivo); la prima forma, “ragione” senza “passione”, un tempo era detta pazzia morale; la seconda, “passione” senza “ragione”, è pazzia e basta. In sostanza non c’è nessuno più pericoloso, a sé e agli altri, di chi abbia certezze assolute, siano esse basate sull’essere anaffettivi o solo affettivi. Anche i fondamentalisti kamikaze o terroristi senza speranza sono possibili perché pongono la credenza non accanto alla ragione, persino ridotta a servetta, ma “al posto” della ragione. Per essi il mito non è mito (anche se per noi lo è), ma “oro colato” di “Dio”, come e più del vero per lo scienziato puro.

La dimensione del mitizzare è notoriamente decisiva nello junghismo. Questo si è svolto come tendenza autonoma, nel suo fondatore, dal 1912 al 1961[20], ma è poi proseguito sino ai giorni nostri, in una forma radicalmente rinnovata, molto discussa anche all’interno della psicologia analitica, dall’americano James Hillman, dagli anni Sessanta del Novecento sino all’inizio del XXI secolo[21]. Ma su ciò a mio parere c’è una linea di differenza non piccola tra psicologia analitica di Jung e psicologia analitica (“archetipica”) di Hillman. In effetti anche nel mio Anima e Mondo, come ricordato da Patrizia Nosengo, io sono junghiano, anche sul mito (ma non sono hillmaniano, pur con la mia grande ammirazione per quell’americano). Jung dice che i miti sono in noi la voce del genere (o specie): una specie che per così dire ci vive dall’interno. (Questo lo pensava anche Marx, quando era ancora un comunista libertario feuerbachiano, nel 1844, ovviamente in un quadro politico-sociale diverso; ma forse su ciò non mutò mai idea, o comunque se ne discute molto[22]).

Ora noi “umani naturanti” – dotati di un’humanitas. oltre a tutto pensante, “singolarizzata”, ma pur sempre sovrapersonale – secondo Jung di tanto in tanto facciamo sogni che egli chiama “grandi sogni”: sogni “speciali”, che invece di esprimere “solo” il nostro vissuto individuale a partire dai nostri più intimi desideri e dalle nostre più intime ossessioni, concernono anche il vissuto della specie nel “qui e ora”. I grandi sogni, e visioni, che intessono Ricordi, sogni e riflessioni di Carl Gustav Jung e la sua appendice, e ancor più il Libro rosso. Liber novus di Jung, sono miti, ossia frutti di un immaginario personale e personalissimo, però di significato intersoggettivo nel “qui e ora” della storia[23]. Jung, però, sapeva benissimo che l’abbandonarsi a quel mondo sognante poteva pure essere molto pericoloso. Aveva una formazione psichiatrica, diversamente dal neurologo Freud, e aveva ben presente il fenomeno chiamato inflazione psichica, cioè di sommersione della coscienza da parte dell’inconscio (una specie di alluvione che rompe gli argini della coscienza: un dilagare dell’inconscio sommergente la coscienza, che è poi la pazzia).

Hillman, per contro, non ha tali remore. Per lui l’inconscio collettivo, o Anima, permea tutta la mente (è la nostra mente), compresa la parte conscia (che in sostanza maschera l’inconscio collettivo, per ragioni vitali). Da un lato perciò Hillman fa fare un passo avanti a tutta la tendenza junghiana, ma dall’altro fa fare ad essa almeno uno o due passi indietro. Può anche darsi che fosse molto prossimo a posizioni – tanto affascinanti quanto discutibili – dell’antipsichiatria alla Laing, che consideravano la follia non già come una sorta di tumore maligno del cervello, che può far morire in vita, ma una malattia che va e viene come un’altra, e che spesso è tale rispetto a un canone di salute imposto a tutti (mentre le culture arcaiche la vedevano spesso come una specie di via di accesso a un “mondo altro”, accettando la diversità come una sorta di destino o vocazione di individui aperti al divino, tra i quali emergevano gli sciamani)[24].

Mentre Jung vedeva in noi la specie che ci vive dall’interno (inconscio collettivo), entro cui emergono presto – con forza loro propria, e non semplicemente come proiezioni dell’inconscio collettivo o “Anima Mundi” – inconscio personale e coscienza, secondo una struttura ben spiegata, vivo Jung, da un bellissimo libro antelucano di Jolande Jacobi[25] – Hillman tendeva a identificare la mente, dall’inizio alla fine, con l’inconscio collettivo. Questo non solo genera in ciascuno di noi l’individuale (inconscio e conscio), ma lo permea, risultando identico all’individuo e viceversa. Perciò le figure archetipiche dei sogni, in quanto sono figure del solo inconscio collettivo, sono dèi; e gli antichi greci avrebbero già descritto, tramite il loro immaginario profondo, il “piccolo popolo” che permea la nostra Anima, vista del tutto neoplatonicamente (facendo sposare innanzitutto Jung, Plotino e Marsilio Ficino, semplicemente psicologizzati).

Credo che in termini di geografia psichica dell’inconscio per quella via siano arrivate tante cose ottime, ma con alcune aporie. Prima di tutto in Hillman scompare, o si ridimensiona moltissimo, la dialettica tra inconscio (collettivo e non) e coscienza. Inconscio individuale e coscienza individuale in Jung sono latenti persino prima di emergere (parla persino di un Io dell’inconscio, o Io come archetipo, che prelude all’Io cosciente); e questo è molto importante perché configura una mente, che ci permea, fatta di tutto quel che siamo, ma in cui c’è pure la coscienza, senza la quale “l’animal-ismo” ci catturerebbe fatalmente. Non possiamo vivere senza grandi miti interiori, senza passioni o fedi, senza sentimenti forti, ma il lògos li deve controbilanciare, perché noi tutti siamo sentimento e ragione[26]; e se dovessimo imporre il sentimento alla ragione, o anche il contrario, invece di bilanciarli, ci procureremmo infelicità certissima; diventeremmo o dei bambocci o dei mascalzoni, e correremmo il fortissimo rischio di uscire di testa (o inflazionati dal sentimento o dalla ragione). Infine se l’Anima del Mondo tutto domina, spiegare il male diventa arduo, e infatti Hillman, pur avendo su ciò oscillazioni, spiega la stessa guerra con il fatto che in noi, con certi tratti già visti anche nei miti greci, la tendenza a guerreggiare (“Marte”), è archetipica[27].

In sostanza, tenendo continuamente in relazione mythos e lògos, dobbiamo evitare sia la deriva irrazionalista che quella razionalista; dobbiamo far procedere la nostra passione e la nostra ragione da buoni amici, possibilmente fondendole. Una tal fusione sarebbe “il meglio”, anche se è quasi un’idea limite. Nel campo del nostro vissuto questa sofrosyne, questa saggezza, mi pare istanza chiara. Ma è così anche in tutte le scienze umane, comprese le più formalmente “logiche”. Ad esempio in filosofia il pretendere di accedere all’essere – quale o cosa esso sia per noi – con la sola ragione, oppure con il solo empito dei sentimenti, è un separare ciò che nella mente è indivisibile. E per gente come Alexander von Humboldt, Goethe e Bergson valeva pure nelle scienze naturali. Su ciò nel nostro tempo Fritjof Capra ha scritto cose per me importantissime[28]. Tutti costoro in tali scienze sapevano tutto quel che si poteva apere al loro tempo, ma ciononostante dissentivano dalla scienza allora dominante (dal newtonismo nel caso di Goethe e Alexander von Humboldt e dal darwinismo e pure “einsteinsismo nel caso di Bergson e di Fritjof Capra[29]. Pure in filosofia morale le costruzioni della giustizia di tipo puramente razionale[30] lasciano il tempo che trovano. E persino in economia politica, e pure in politica economica, quelli che hanno capito di più – mi vengono in mente Adam Smith e Pareto – hanno tenuto nel massimo conto i sentimenti o pulsioni degli uomini[31]. Ascoltiamo la mente, razionale e irrazionale, ma senza “tagliarla in due”. Non possiamo né liquidare l’irrazionale né il razionale, né il sentimento né il pensiero; non possiamo sopprimere la “follia” mitizzante né la “ragione” calcolante, ma dobbiamo farle giocare insieme – separandole solo temporaneamente quando non se ne possa proprio fare “praticamente” a meno “per ragioni assolutamente inevitabili” – sino all’ultimo respiro.

Ma, ciò posto, come si configura il “vero” pensare per miti per me, avendo pure presenti i problemi collettivi del nostro tempo? – Proverò a dirlo di seguito.

(Segue)

vai a alla raccolta dei Pensierini inattuali

[1] Golem Edizioni, Torino, dicembre 2018, pagg. 443. Si veda: P. NOSENGO, Un libro per uno e per tutti – Anima e Mondo, il nuovo libro di Franco Livorsi, “Città Futura on-line”, 15 maggio 2019.

[2] M. -L. Von FRANZ, Le fiabe interpretate (1969), Bollati Boringhieri, Torino, 1980.

[3] Euripide, l’ultimo dei tre grandi tragici, è, come i sofisti e Socrate, quasi un moderno, che mentre racconta miti, li demitologizza. Lo vedo come una specie di Pirandello del mondo greco classico, che mostra il volto spesso negativo del mito proprio mentre lo racconta. Per uno dei paradossi della storia, il maggior testimone dei miti connessi a Bacco, o Dioniso, nelle Baccanti mostra un volto del dio più tremendo che affascinante.

[4] OMERO, Iliade (verso il 750 a.C.), a cura di M. G. Ciani e commento di E. Avezzù, con testo greco a fronte, Marsilio, Venezia, 1990 (testo per cui rinvio pure a: F. LIVORSI, L’Iliade (in prosa): avventura eroica e destino tragico, “Il Ponte”, a. XLVII, n. 10, ottobre 1991, pp. 156-161; Odissea (verso il 700 a.C.), traduzione di G. A. Privitera con testo greco a fronte e Introduzione di A. Heubeck, Fondazione L- Valla – Mondadori, Milano, 1981 (e Oscar Mondadori, 1991); Inni omerici, a cura di F. Cassola, Fondazione L. Valla-Mondadori, 1986; ESIODO, Opere e giorni e Teogonia (VII secolo a.C.), in: Opere, testi introdotti, tradotti e commentati da G. Arrighetti, con testo greco a fronte, Einaudi-Gallimard, Torino, 1998; ESCHILO, SOFOCLE, EURIPIDE (dal VI al V secolo a.C.), Tragici greci, a cura di R. Cantarella, Mondadori, Milano, 197 (e Oscar Mondadori, 1992). Per i richiamati autori comici antichi e il loro ridere anche di grandi dèi, si vedano, per la Grecia, ARISTOFANE (V/IV secolo a.C.), Commedie, a cura di G. Mastromarco, UTET, Torino, 2007, due voll., qui soprattutto in riferimento a: Le rane (e, ivi, a Dioniso); PLAUTO, Commedie (III secolo a.C.), a cura di C. Carena, Einaudi, Torino, 1975, qui soprattutto in riferimento all’Anfitrione (e, ivi, a Giove ed a Mercurio). Per gli estremi sviluppi del mito nel mondo antico, si veda il romanzo fantastico di L. APULEIO Le metamorfosi. L’asino d’oro, Oscar Classici Mondadori, Milano, 1990 (su cui rinvio pure a: F. LIVORSI, “L’asino d’oro” da Apuleio a Marie-Louise von Franz, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, Firenze, a. VI, n. 1-2, giugno 1993, pp. 5-20).

Per i Veda, composti tra XVI e II secolo a.C., è da vedere la vastissima antologia: I Veda. Mantramanjari, Testi fondamentali della rivelazione vedica, a cura di R. Panikkar e in ed. it. a cura di M. Carrara Pavan, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2001, due volumi. Ma si vedano i poemi: VALMIKI, Ramayana (tra il 500 a.C. e il 200 d.C.) a cura di S. Savero, tr. di P. D’Adamo, Santa Maria degli Angeli, Assisi, 1992, tre voll. (consta di 24-000 strofe); VYASA, Mahabharata (tra il 200 a.C. e il 200 d.C.),  a cura di G. Borgonovi e M. Merzagalli, La Comune, Milano, 2007/2009, sette volumi (consta di 106.000 strofe, in 18 libri). Indicazioni preziose per la datazione e per le interpolazioni delle due opere nei secoli, e anche in generale, sono in: M. STURLEY – J. STUTLEY, Dizionario dell’induismo, (1977), Ubaldini, Roma, 1980, pp. 159-160 e 247-249. Fa parte del Mahabharata, al VI libro, quello che per gli induisti è il Vangelo nazionale: Bhagavàd Gità (Il canto del Beato), con saggio introduttivo, commento e note di S. Radhakrishnan, tradotto da I. Vecchiotti, Ubaldini, Roma, 1964 (ho commentato il libro, a partire da questo straordinario testo, in chiave junghiana: F. LIVORSI, Note psicologiche sulla Bhagavàd Gità, “Klaros”, a. 9, n. 2. Dicembre 1996, pp. 107-134).

[5] Per il testo base dell’ebraismo come del cristianesimo si veda, naturalmente: La Sacra Bibbia, ossia l’Antico e il Nuovo Testamento, Versione riveduta in testo originale di G. Luzzi, Libreria Sacre Scitture, Roma, s.d. L’identificazione tra il Gesù della storia e Dio è forte nel teologo, poi papa Benedetto, RATZINGER, come si evince in: Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, e in: Gesù Cristo. Il Dio con noi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013.

[6] Risulta del tutto evidente in: Il Corano. Introduzione, traduzione e commenti di A. Bausani, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1988. Si veda soprattutto; S. NOJA, Maometto e il suo Corano, Mondadori, Milano, 1988,

[7] PLATONE, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari, 1967.

[8] E. DODDS, I greci e l’irrazionale, Rizzoli, Milano, 2008.

[9] Per il riferimento al noumeno in I. KANT, si veda: Critica della ragion pura (1781 e infine 1787), Trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice rivista da V. Mathieu, Laterza, Bari, 1959, specie nella parte sulla “dialettica trascendentale”. Per il tema della volontà come noumeno, si veda: A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818, ma 1819), a cura di S. Giametta, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002, due volumi. Per la polemica di F. NIETZSCHE con l’intellettualismo socratico si veda il suo: La nascita della tragedia (1871), Adelphi, Milano, 1971. Per il noumeno come volontà di potenza, dello stesso: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883/1892), trad. di L. Scalero, Longanesi, 1979; La volontà di potenza (postumo, 1926), Frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster Nietzsche, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano, 2001 (testo discutibile in più punti perché interpolato – nonostante la rivalutazione degli ultimi curatori, e soprattutto di Ferraris – dai curatori originari, e soprattutto da Elisabeth Forster Nietzsche, antisemita e infine nazista).

[10] U. GALIMBERTI, La terra senza il male, Feltrinelli, Milano, 1984.

[11] ERACLITO, Dell’origine (VI-V secolo a.C.), traduzione e cura di A. Tonelli con testo originale a fronte, Feltrinelli, Milano, 1993 (frammento 63 a p. 119).

[12] M. HEIDEGGER,  La dottrina platonica della verità (1931-1932, ma 1942), in: Segnavia, a cura di F.-W. Von Herrmann, e in it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1987. Va connesso alla critica di Nietzsche al socratismo, che era stato da quel filosofo identificato col platonismo, sulla traccia degli studi di E. Zeller, che facevano di Socrate lo scopritore del concetto. Per Heidegger Platone è il fondatore della metafisica, ossia del concettualizzare astratto, che pretende di ridurre l’essere – il reale in sé e per sé, quale sia la sua natura ultima – al mero ragionare umano, invece di procedere per intuizioni empatiche come i presocratici.

[13] H. BERGSON, Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), con premessa di A. Rovatti e tr. di F. Sossi, Cortina, Milano, 2002. Ma per l’insieme del ragionamento contano altre due opere decisive di BERGSON: L’evoluzione creatrice (1907), a cura di F. Polidori, ivi, 2002 e Le due fonti della morale e della religione (1932), Comunità, Milano, 1966.

[14] G. SOREL, Considerazioni sulla violenza (1908), con Prefazione di B. Croce, Laterza, Bari, 1909 (ma in francese era: Réflexions sur la violence). Lessi questo libro in tale edizione nella mia adolescenza, nel 1958, e mi fece una grande impressione. Lo presi dalla biblioteca del nonno di un mio compianto e grande amico di Rovigo, Sergio Garbato, poi diventato il più importante storico della cultura del Polesine e giornalista culturale dagli anni Ottanta del Novecento in poi. In seguito mi occupai di Sorel discutendo il libro di G. CAVALLARI, Georges Sorel. Archeologia di un rivoluzionario, Jovene, Napoli, 1994, nel mio articolo: Sorel rivoluzionario?, “Nuova Antologia”, n. 2195, 1995, pp. 319-336. Ma soprattutto ho dedicato a Sorel pagine di intensa riflessione poetica nel mio ultimo libro: Anima e Mondo, cit., pp. 67-81.

[15] B. MUSSOLINI, Lo sciopero generale e la violenza, “Il Popolo” (Trento), a, X, n. 2736, 25 giugno 1909 (è la recensione all’opera cit. di Sorel sulla violenza), ora in: Scritti politici di Benito Mussolini, a cura di E. Santarelli, Feltrinelli, 1979, pp. 115-120; Il discorso di Napoli, 24 ottobre 1922, ivi, pp. 219-223 (contiene il passaggio cit. sul mito). Si veda pure, per tali aspetti, il cap. Note politiche e psicoanalitiche su Benito Mussolini, nel mio libro Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 181-204. Si veda pure, su Sorel: p.t. (Palmiro Togliatti), È morto Sorel, “Il Comunista”, a. II, n. 204, 1° settembre 1922 (ora in: P. TOGLIATTI, Opere, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1967, I).

[16] PLATONE, Simposio, in: “Opere complete”, cit., I, pp. 657-724, ma soprattutto cap. XXIV/XXIX, pp. 696-709.

[17] D. ALIGHIERI, Vita nova (1292/1295), a cura di G. Gorni, Einaudi, Torino, 1996; La Divina Commedia (1306/1397 – 1321), testo critico stabilito da G. Petrocchi, Einaudi, Torino, 1975; Abbé F. PRÉVOST, La vera storia del cavalier De Grieux e di Manon Lescaut (1731, nota come Manon Lescaut), in francese riedito da Delarne a Parigi nel 1877, poi in opera di G. PUCCINI nel 1893 (con libretto di G. GIACOSA e altri; ma c’era già stata altra opera sullo stesso tema: Manon, di J. MASSENET su libretto di H. MEILHAC e Ph. GILLE nel 1884); G. FLAUBERT, L’educazione sentimentale. Storia di un giovane (1896), tr. di L. Romano, Einaudi, Torino, 1984; M. PROUST, La strada di Swann (1913), Einaudi, Torino, 1990, ma lo si veda anche nella bella traduzione e cura dell’intera opera Alla ricerca del tempo perduto da parte di M. Bongiovanni Bertini, con Prefazione di G. Macchia, Einaudi, Torino, 1991, tre voll.;  W. GOETHE, I dolori del giovane Werther (1774 e infine 1782), a cura di G. Baioni, Einaudi, Torino, 1998; L. DAUDET, L’arlesiana fa parte dei Racconti dal mio mulino (1869), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1954, ma la vicenda è stata resa universalmente nota, e indimenticabile da due opere liriche: una di F. CILEA su libretto di L. MARENCO, del 1897 (mentre G. BIZET, nel 1872, aveva fatto le musiche di scena del dramma che Daudet aveva ricavato dal proprio racconto); F. MÉRIMÉE, Carmen (1845), ma diventa un tipo immortale nell’opera di G. BIZET con libretto di H. MEILHAC e L. HALÉVY nel 1875.

[18] W. JAMES, La volontà di credere (1897), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1984. Si confronti con: H. BERGSON – W. JAMES, Durata reale e flusso di coscienza. Lettere e altri testi (1902-1939), Cortina, Milano, 2014.

[19] Su ciò si confrontino: G. BOCCA, La repubblica di Mussolini, Laterza, Bari, 1977; M. FRANZINELLI, Il prigioniero di Salò. Mussolini e la tragedia italiana del 1943-1945, Mondadori, Milano, 2016.

[20] Il testo in cui C: G: JUNG acquisisce un pensiero suo caratteristico è il libro Trasformazioni e simboli della libido (1912), poi rielaborato quarant’anni dopo circa in: Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia (1950), ora in “Opere”, vol. 5, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino, 1984. L’ultimo saggio, del 1961 (anno della morte), è Introduzione all’inconscio, in: AA.VV., L’uomo e i suoi simboli, a cura dello stesso, Casini, Firenze, 1967, pp. 18-103. Questo prezioso libro, di Jung e dei più stretti collaboratori, è poi stato riedito dalla RED di Como.

[21] Nella vasta bibliografia di J. HILLMAN sono soprattutto da vedere: Fuochi blu (1989), a cura di T. Moore, Adelphi, 1996, preziosa auto-antologia; Il mito dell’analisi (1976), Adelphi, 1979, che è la prima grande opera del suo indirizzo; Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino (1996), Adelphi, 1997. Sono pure preziosi i suoi libri-intervista, con particolare riferimento a: Intervista su amore, anima e psiche, a cura di Marina Beer, Laterza, Bari, 1983; L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano, 1999.

Rinvio pure ad alcuni miei contributi: Archetipi e storia in James Hillman, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, a. 17, n. 1, dicembre 2004, pp. 5-58; Hillman, un uomo da non dimenticare”, “Città Futura on-line”, 29 ottobre 2011; “Fuochi blu”. Note e riflessioni sul “meglio” di James Hillman, “Città Futura on-line”, 28 ottobre 2012; Antipolitica e politica da Jung a Hillman, “l’Ombra” (Moretti & Vitali editore), n.s., n. 10, 2017, pp. 208-237.

[22] C. G. JUNG, in: Il significato della psicologia per i tempi moderni (1933), in “Opere”, vol. 10-1, Bollati Boringhieri, 1985, 1, pp. 201-224, osserva: “Riconoscere in quale straordinaria misura gli uomini differiscano tra di loro, è stata una delle maggiori esperienze della mia vita. Ora l’uguaglianza collettiva sarebbe semplicemente una gigantesca illusione, se non fosse invece il fatto originario, l’origine e la matrice di tutte le anime individuali. Ma tale uguaglianza continua anche ora a persistere, nonostante le coscienze individuali, come inconscio collettivo, simile al mare su cui la coscienza dell’Io galleggia come una nave. Perciò nulla del mondo psichico primitivo è scomparso. “ Così a p. 206, ma le sottolineature sono mio. Ivi si vedano pure le pagg. 213 e 224. Ma la maggior elaborazione in materia è in: L’uomo e i suoi simboli (postumo, 1964), a cura di Jung, cit. Nella vasta produzione in proposito di J. HILLMAN, rinvio agli scritti scelti da lui selezionati: Fuochi blu (1989), cit. Chiarisce molte cose anche il suo saggio: Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia junghiana, “Rivista di psicologia analitica”, a. IV, n. 2, 1973.

Per quel che concerne il rapporto tra natura umana e individualità – questultima intesa come specificazione della prima a tutti comune – è da ricordare quanto Marx scriveva nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 al punto XXIV, in: Opere filosofiche giovanili, a cura di G. DELLA VOPE, Editori Riuniti, 1963, al cap. lì intitolato Il lavoro alienato: “L’uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche – e questo è solo un altro modo di esprimere la stessa cosa – in quanto egli si comporta con se stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come un ente universale e però libero. (…) La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura che non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura significa che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, ché l’uomo è una parte della natura (pp. 108-109).”

[23] Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung, raccolti ed editi da A. Jaffé (1961), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1987; Il libro rosso. Liber novus (postumo, 2009), a cura e con introduzione di S. Shamdasani, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. Per tali aspetti rinvio pure a: F. LIVORSI, L’avventura di Jung. Romanzo-verità, Falsopiano, Alessandria, 2012; Morte e rinascita di “Dio” nel “Libro rosso” di Carl Gustav Jung, “Anima e Terra”, Alessandria, a. I, n. 1, aprile 2012, pp. 21-43.

I sogni miei raccontati da me in tutta la seconda parte del mio Anima e Mondo sono sogni del genere. Per questo li ho raccontati.

[24] R. LAING, L’io diviso. Studi di psichiatria esistenziale (1960), Einaudi, Torino, 2010; Normalità e follia nella famiglia (1964), ivi, 1984. Si veda pure: Intervista sul folle e il saggio, Laterza, Bari, 1979.

[25] J. JACOBI, La psicologia di Jung (1944), Einaudi, Torino, 1949 e poi Boringhieri, 1965.

[26] Non a -caso ho considerato come punto chiave del Libro rosso di Jung, al punto di porlo come sola epigrafe del mio Libro del 2018 Anima e Mondo, il seguente passaggio, in Jung a p. 276: “Se vai dal pensiero, porta il cuore con te. Se vai dall’amore, porta la testa con te. Vuoto è l’amore senza il pensiero, vuoto il pensiero senza l’amore.”

[27] Oltre ai testi già cit. si veda qui: J. HILLMAN, Un terribile amore per la guerra (2004), Adelphi, Milano, 2005.

Per quest’insieme di ragioni cerco sì di valorizzare Hillman, ma prendendo sempre Jung come punto di vista più avanzato, come in: F. LIVORSI, Antipolitica e politica da Jung a Hillman, cit.

[28] Su ciò rinvio al mio libro: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000, in cui tutti questi riferimenti sono tematizzati. Colpisce molto il fatto che il modello scientifico dominante, che nel XVIII-XIX secolo era quello di Newton, e nel XX di Einstein, venisse contestato non già da irrazionalisti allo sbaraglio, ma da grandi studiosi delle scienze naturali o, nel caso di Einstein, da un cervello di prim’ordine dalla fortissima cultura scientifica, come Bergson. Lo noto non già per prendere posizione per gli uni piuttosto che per gli altri, ma per sottolineare che “il vero”, anche il più scientifico, non è mai solido come pare. La realtà per me è una, ma mi pare innegabile che si siano dati molti modelli scientifici, che un grande studioso di storia della scienza, T. KUHN, In: La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1979, ha detto “paradigmi”. Mi sembra un fatto che se invece di studiare “la fisica” studiassimo la “storia della fisica”, come studiamo quella della filosofia, avremmo un’impressione di relatività, almeno nella fisica teorica, non molto diverso che in filosofia.

[29]  Ho trattato ampiamente le idee di tutti questi autori, da Goethe a Fritjof Capra, nel mio libro: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000. Considero – e infatti ivi particolarmente tratto – fondamentali due opere di Fritjof CAPRA: Il Tao della fisica (1975), Feltrinelli, Milano, 1982 e Verso una nuova saggezza. Conversazioni con G. Bateson, I. Gandhi, W. Heisenberg, Krishnamurti, R. D. Laing, E. F. Schumacher, A. Watts e altri personaggi straordinari (1988), Feltrinelli, 1988. Ivi non tenevo ancora conto di: H. BERGSON, Durata e simultaneità. A proposito della teoria di Einstein e altri testi sulla teoria della relatività (prevalentemente del 1922), Cortina, Milano, 2004.

[30] Ad esempio anche il vertice di tale impostazione oggi: J. RAWLS, Una teoria della giustizia (1975 e infine 1999), Feltrinelli, 2000. Stabilito il minimo-massimo della giusizia, ammesso e non proprio concesso che si possa farlo, resta aperto il problema della sua realizzabilità. Lo si può dire pure per l’etica di Kant. Su ciò, nonostante tutto, resto con la famosa XI Tesi su Feuerbach (1845, ma 1888) di Marx, in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Rinascita, Roma, 1950.

[31] Così Adam SMITH, l’iniziatore dell’economia classica, l’autore di La ricchezza delle nazioni (1776), Newton Compton, Roma, 1976, è pure l’autore di Teoria dei sentimenti morali (1759), ossia un filosofo morale, sia pure segnato da un certo ottimismo illuministico sulla natura umana. Vilfredo PARETO pone alla base dell’essere sociale dell’uomo non solo il perenne rapporto di dominazione delle minoranze organizzate sulla maggioranza (elitismo), ma anche i bisogni irrazionali delle persone in generale, nella specificità delle situazioni esistenziali collettive. Tali “residui” dell’inconscio sono decisivi non solo in sociologia, ma anche in economia, come si vede nella sua opera: Manuale di economia politica con una introduzione alle scienze sociali, Società editrice libraria, Milano, 1906.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*