Perché la socialdemocrazia in Danimarca ha vinto?

(*) Sir Paul Collier mette il dito nella piaga: qualora la sinistra continuasse nel perseguire i dettami della “società mondo” non avrebbe nessuna speranza. Per converso se essa ritornasse a considerare il collante identitario che caratterizza la “società nazione” il consenso potrebbe ritornare a confortarla.

Se i reciproci obblighi condivisi sono il prodotto di una realtà sociale storicamente e perimetralmente determinata, il cui epilogo ha generato benessere, ai nuovi entranti devono essere forniti gli strumenti necessari affinché possano godere dei comuni benefici, ma al tempo stesso essi devono mostrarsi disponibili a utilizzarli nel miglior modo possibile.

Se l’effetto consta nei diversi disastri elettorali subiti dai partiti socialdemocratici in Europa, il sociologo oxfordiano si chiede: qual è la causa agente? Causa, la quale viene ravvisata nella condizione di “dis-organicità” creatasi nel corso degli ultimi tre decenni all’interno dei quei partiti tra la “nuova” élite intellettuale e la grande massa di lavoratori ordinari. E’ un altro modo, seppur con l’utilizzo di una diversa scansione, per contrapporre la “società mondo” alla “società nazione”, in parallelo con un’altra dicotomia “urbanesimo mondialista” versus “provincia tradizionalista”.

Il desiderio di appartenenza è un elemento connaturato in ognuno di noi, in quanto ogni individuo si approssima all’altro nella misura in cui intuisce la condivisioni di valori comuni. Insomma, sembra affermare Collier, non basta il “globalismo economico” o l’ “idealismo umanitario” per farci sentire interdipendenti nel nostro ruolo di cittadini partecipi in una data collettività statuale: serve il riconoscimento di un comune sostrato “spirituale”. Una dimensione immateriale che dia corso a una reciproca interazione. Tema assai arduo e spinoso.

Infine, due note a corredo: la prima riguarda l’autore e il testo, Sir Paul Collier[1] è considerato con grande rispetto un decano dell’intellighenzia britannica, professore di politiche pubbliche alla Blavatnik School, Oxford, un istituto ove un bravo laureato o un dottorante in Scienze politiche proveniente da ogni dove anelerebbe per poter almeno attendere a un semestre; il testo è complesso per i suoi neologismi e per le sue improvvise “rotture” di registro;

la seconda riguarda la presunta “ambiguità” di Jeremy Corbyn, leggendo l’articolo ci si rende conto come abbia un effetto lacerante, sia tra gli intellettuali sia tra i votanti Labour, il tema della Brexit in Gran Bretagna.

A seguito del suo successo alle elezioni danesi, Mette Frederiksen è pronta a riportare al potere i socialdemocratici. Ciò contrasta nettamente con il destino di tali partiti altrove in Europa: il lungo e malinconico ruggito di una bassa marea. La spiegazione di Mette per quel declino, illustrata agli elettori della classe lavoratrice, è stata: “voi non ci avete lasciati; noi vi abbiamo abbandonati“. Ha vinto non affossando i valori fondamentali ma riconsiderandoli. Per capirlo, abbiamo bisogno di [proiettare] un’immagine più ampia della Danimarca del secondo millennio.

Dal 1945, per la prima volta nella storia globale, alcune società hanno raggiunto una prosperità materiale ampiamente condivisa. Tra quelle che sono state in grado di farlo, in concomitanza a ciò, hanno migliorato altri valori intrinseci negli esseri umani, e che si riflettono meglio nel concetto di “benessere”. La Danimarca è all’apice di questo miracolo: insieme alla Norvegia, ha la ragionevole pretesa di essere [considerata] la società di maggior successo che mai sia esistita. Ciò esemplifica il trionfo dell’agenda politica che chiamiamo socialdemocrazia.

L’essenza della socialdemocrazia consisteva nel riconoscere sia il valore sia i feroci limiti del capitalismo di mercato, mediante la creazione di un sistema di credenze tra i cittadini, laddove le ansie continuamente generate potessero essere affrontate. I leader politici comunicavano un senso di comune scopo per raggiungere un programma lungimirante, inculcando parallelamente un senso di reciproci obblighi [sociali] da mettere in atto. I singoli impararono che avevano dei doveri l’uno per l’altro: non solo per le loro famiglie, ma per l’intera società. A poco a poco, la società tesseva una fitta rete di reciproche imposizioni: assoggettando le persone mediante una leggera pressione al rispetto di sé e verso la stima nei confronti dei propri pari. L’economia crebbe e i benefici furono condivisi.

La reciprocità ha bisogno di un luogo in cui l’identità sia condivisa: ho bisogno di sapere a chi li devo questi vincoli e a chi mi posso rivolgere. Inoltre, questo dominio deve essere di conoscenza comune: tutti quanti dobbiamo sapere che ognuno di noi comprenda le stesse cose. Nel corso del tempo, le abitudini si formano e la reciprocità si evolve dall’essere transazionale, in cui le persone tengono il conto dei favori fatti [verso terzi], all’essere ove vige una maggior generale presunzione di rispetto reciproco, analoga, anche se in una campo più limitato, ai comportamenti  presenti in un buon matrimonio.

La socialdemocrazia del dopoguerra non costruì questa identità condivisa, ma la ereditò fortuitamente da tempi più travagliati. Venne forgiata attraverso il destino comune delle lotte militari internazionali e condivisa entro il perimetro nazionale. Come tutte le altre, la socialdemocrazia danese diede per scontata questa identità compartecipata. Il suo risultato fu quello di metterla a frutto.

Ma in tutto il mondo, molte società hanno continuato [il loro cammino] lungo i percorsi più comuni di povertà e violenza. Quando è diventato materialmente possibile per alcune persone passare da queste società a quella danese, non sorprende che alcuni abbiano scelto di comportarsi secondo il loro costume. Una insufficiente riflessione venne fatta su come loro e i rispettivi figli avrebbero dovuto essere integrati nel nuovo prevalente sistema di credenze d’identità condivisa, di lungimirante scopo comune e d’obblighi reciproci.

All’interno della società danese queste idee erano così familiari che la gente arrivò a presumere che fossero intrinsecamente ovvie. Eppure, molti migranti provenivano da paesi con credenze radicalmente diverse. La cittadinanza legale non conferiva automaticamente una nuova identità comune: piuttosto, sembrava concedere diritti che potevano essere rivendicati. In molte società povere quel lungimirante scopo comune si profilava come l’antitesi alle loro credenze fondamentali, laddove veniva data priorità alle passate rimostranze contro i gruppi rivali. Gli obblighi erano per la famiglia e per Dio, non per gli umani al di fuori dei legami di parentela.

Qualora un sistema di obbligazioni reciproche basato sulla fiducia fosse posto sotto stress, inizia a sgretolarsi. A partire dal 1980 circa, tutti i paesi dell’OCSE dovettero affrontare non solo l’immigrazione, ma anche nuove forze economiche divergenti assai più potenti. La metropoli iniziò a espandersi, spinta dalla globalizzazione dei mercati, mentre le città di provincia affrontarono il declino; i soggetti ben istruiti beneficiarono dell’aumento della domanda per le loro capacità, spinti dalla maggiore complessità dell’economia, mentre il valore delle abilità manuali iniziò a calare.

Gli esperti “metropolitani” scoprirono di ritenersi più gratificati dall’identità conferita dal proprio lavoro piuttosto che dalla loro nazionalità e si svincolarono da quella identità condivisa [precedentemente forgiata] con i loro concittadini meno fortunati. Giustificarono il loro egoismo trasferendo l’attenzione agli immigrati, i quali giungevano nelle metropoli: erano questi i loro nuovi “concittadini” a cui abbisognasse prestare attenzione. La preoccupazione non corrisposta riguardo ai diritti degli immigrati prese il posto alle reciproche obbligazioni nei confronti dei loro compatrioti [più svantaggiati] proprio nel momento in cui diventò determinante il momento per adempierle.

Come altri partiti socialdemocratici, quello danese si basò sempre su di un’alleanza tra la classe lavoratrice provinciale e quella istruita emergente urbana. Ma il cambiamento nel sistema di credenze dei “metropoliti” mise il partito di fronte a una scelta. L’istruita gioventù urbana conservava un vantaggio: i sindacati erano in declino, mentre la prima stava aumentando. Poiché questi prendevano in mano il partito, la classe operaia si allontanò gradualmente e i “metropoliti” sdegnosi li accusarono di essere “deplorevoli”, con il significato di “fascisti”.

Ma l’identità condivisa della Danimarca del dopoguerra non era stata un ritorno al nazionalismo aggressivo: era lì per definire i confini dell’adesione al nuovo sistema di obbligazioni condivise.

Raffigurare questo [passato] come quasi-fascista era la teatrale supponenza di coloro desiderosi di abbandonare i loro obblighi [sociali]. Il dominio della reciprocità deve essere nazionale per la semplice ragione che la nazione è l’entità entro la quale possono essere incamerate le entrate fiscali necessarie per soddisfare tali imposizioni sociali. Innanzi tutto, le obbligazioni chiave sono sulle spalle delle qualificate classe urbane come cessione dell’elevata produttività generata dalla concentrazione [di poteri, risorse] e che essi attribuiscono erroneamente in misura totale alle proprie capacità.

Mette Frederiksen riconobbe la necessità dell’appartenenza condivisa. Sta ricostruendo uno scopo comune attorno a un’agenda pragmatica lungimirante per affrontare le nuove ansie che il capitalismo globale pressa verso la classe operaia. Ma dopo anni di abbandono, quegli elettori non si fidavano più del partito. Per ristabilire la credibilità, la Frederisken aveva bisogno di “un’azione dimostrativa“: cosa che, se lei fosse stata un’appartenente alla classe dei “metropoliti” con lo scopo di prenderli per i fondelli, non l’avrebbe fatta.

In tutta Europa, la questione più saliente è diventata l’immigrazione: è arrivata a definire il divario tra i “metropoliti” e la classe operaia. Da lì, un deciso cambio attinente alla politica sull’immigrazione ne rappresentò questo segnale: i giovani urbani si sarebbero strozzati, piuttosto che inalberarlo. Quel segnale ha ristabilito la fiducia: il partito ha riconquistato i voti della classe operaia, mentre ha perso voti tra i giovani “metropoliti”.

Nel frattempo, alcuni degli altri partiti della Danimarca hanno virato verso la retorica anti-immigrazione sgradevole e controproducente, in quanto [tale comportamento] rende ancora più difficile il compito essenziale d’integrare tutti gli immigrati e i loro figli che sono già cittadini.

In parallelo al suo obiettivo principale di tornare alle radici del partito nel cominciare a prendere in esame le ansie affrontate dai lavoratori, la Frederiksen sta prestando molta attenzione a come l’integrazione può essere raggiunta nel miglior modo. Tutti i cittadini hanno bisogno di assorbire il sistema di credenze connesso alle obbligazioni reciproche e del mutuo rispetto che sono alla base del miracolo sociale danese: questa è la condizione in base alla quale l’immigrazione da culture diverse è sostenibile. L’accettazione dell’identità condivisa da parte degli immigrati non preclude il mantenimento di altre identità. Ma deve essere sufficientemente manifesta da generare la consapevolezza comune di aver abbracciato l’identità, lo scopo comune e le obbligazioni che ne derivano.

Credenze comuni diffuse attraverso i crogioli dell’inclusione sociale cui fanno parte l’interazione: prescolastica, lo sport, la musica, il lavoro, i club, ebbene tutte quante ne sono un potenziale. La discussione sulla politica riguardo l’immigrazione non può più essere separata da tali processi pratici d’integrazione. A lungo ignorata – respinta da un diritto di esclusione e rifiutata da una sinistra ossessionata dai diritti individuali – ora [tali programmi] fanno parte del novero delle politiche socialdemocratiche del 21 ° secolo. La Frederiksen sta facendo da pioniere per il rinnovamento della socialdemocrazia europea: al centro c’è la ricostruzione dell’identità condivisa, dello scopo comune e degli obblighi reciproci che sfuggono agli [istruiti] residenti nelle metropoli.

Sir Paul Collier is professor of economics and public policy at the Blavatnik School of Government, Oxford University, and author of “The Future of Capitalism: Facing the New Anxieties” (Penguin)

https://www.newstatesman.com/world/europe/2019/06/denmark-has-shown-how-renew-european-social-democracy?fbclid=IwAR3NjOEfFgltS5FO_rsHzSqXJZPhigMPbgEPQealM8RpnkkhPdT4dW1y5J8

[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_Collier

(articolo suggerito da Franco Gavio e Giorgio Abonante; ripreso dal civis Pier Luigi Cavalchini)

Paul Collier – La Danimarca ci ha mostrato come rinnovare la socialdemocrazia europea

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