Quando poesia e realtà si incontrano

Eravamo nel porto di Messina, meta finale di un viaggio iniziato a Bussoleno due giorni prima.

Dopo le operazioni di sbarco, ci avrebbero caricati sugli ACL e trasferiti alla caserma base. Da qui sarebbe iniziato un lungo periodo di marce, accampamenti e scuola tiro con il mortaio. Era il 22 giugno 1982, l’estate dei mondiali di calcio.

Quando, due mesi prima, a Boves, ci comunicarono che il battaglione alpino “Saluzzo” avrebbe fatto i campi estivi in Sicilia, mi vennero i brividi.

Ripensai a quelli invernali, ai primi di marzo. Eravamo appena giunti a Boves dal CAR di Cuneo e come ultimo scaglione (quello di gennaio), per le regole non scritte del “nonnismo”, eravamo stati obbligati a svolgere tutti i lavori, anche quelli che non ci competevano. Rifiutarsi significava incorrere in una delle punizioni previste dal codice dei “nonni”.

Perciò ogni sera lo scaglione di gennaio, o meglio quelli liberi da altri servizi, si trovava, alla luce delle torce elettriche, presso la cucina campale per pulirla e lavare pentole e tegami, oltre a posate e stoviglie della mensa ufficiali.

Non avevamo guanti e il detersivo in polvere in dotazione alle Forze Armate era talmente forte da spaccare la pelle delle mani, causando un dolore simile a quello di mille aghi. In più un nostro commilitone, l’addetto alla campale, con piglio cattivo, ci urlava continuamente nelle orecchie di sciacquare bene le pentole, perché non voleva avere la “cagarella” a causa dei residui di detersivo.

Ciò che mi faceva più rabbia era vedere la stessa persona sottomessa e servile di fronte a “nonni” e ufficiali.

Mi tornava in mente poi l’esperienza di piantone del campo base. Rimanevo in servizio all’entrata dalle 08,00 fino alle 18,00, quando mi dava il cambio la sentinella per la guardia armata notturna.

Unici momenti di libertà il rancio e le necessità fisiologiche, ma non sempre trovavo un sostituto.

Uno dei miei compiti era tenere pulita l’entrata del campo, liberandola da ghiaccio, fango e foglie, ma le continue nevicate rendevano quasi ridicoli i miei sforzi.

Quando riuscivo ad allontanarmi dal mio posto per un’esigenza fisiologica, dovevo muovermi quasi di nascosto per evitare di incontrare “nonni” e sottufficiali sempre alla ricerca di un “figlio” su cui scaricare la propria mansione o a cui dare comandi.

Inutile dire che avevi un’urgenza, perché prima venivano i loro ordini e tu potevi scordarti di andare ai servizi igienici entro breve tempo, rischiando anche qualche punizione per abbandono del proprio posto.

Uniche consolazioni, non avremmo sofferto il freddo e avremmo condiviso le corvée con i” figli” degli scaglioni successivi al nostro.

Giungemmo alla caserma. Oltre il muro di cinta si vedevano il mare e in lontananza Reggio Calabria. Il paesaggio era affascinante e a questo si aggiungeva un’atmosfera quasi “serena” dell’ambiente, molto diversa da quella sempre tesa delle nostre caserme.

Luce e profumi poi ci inondarono per tutto il periodo di permanenza sull’isola. Una luce abbagliante e profumi intensi di piante aromatiche tipicamente mediterranee.

Il nostro fu un percorso di andata e ritorno da Messina alle pendici dell’Etna, passando da paesaggi aridi a fitti boschi, da un mare azzurro alle albe e ai tramonti mozzafiato sull’Etna.

Ci accampammo in luoghi diversi, ne ricordo purtroppo soltanto alcuni, Monforte, Santa Lucia del Mela, Randazzo. Fu un succedersi di situazioni, dalle sveglie antelucane, agli incendi, che rendevano irrespirabile un’aria spesso già soffocante di per sé. Dalle marce estenuanti agli incidenti stradali. Ricordo quando il nostro convoglio entrò in uno stretto vicolo, danneggiando un basso balcone e una Renault 5 metallizzata, suscitando la rabbia degli abitanti del luogo.

Noi del campo base, con il pretesto che non marciavamo, avremmo dovuto ottemperare a tutte le richieste degli operativi. Quando ciò non accadeva erano discussioni senza fine.

Il più “richiesto” ero io, sia perché furiere, sia per la mia mansione di piantone all’entrata del campo. Nonostante i miei sforzi, prima della partenza per la Sicilia, non ero riuscito ad essere sollevato da quest’ultimo incarico: purtroppo solo conoscevo a menadito tutte le mansioni del piantone alla sbarra. Solo che a marzo eravamo in due (il furiere ed io), ora ero solo.

Durante il giorno controllavo i movimenti in entrata e in uscita, presentavo la forza ad eventuali alti ufficiali in visita, spazzavo e così via. Dopo il rancio serale stavo in tenda fureria a battere a macchina da scrivere gli ordini per il giorno successivo.

Per preparare questi ultimi avrei dovuto ricevere i dati dalle varie sezioni del campo (cucina ecc.) prima di una certa ora, in realtà non giungeva mai niente. Quindi, non essendoci collegamenti telefonici interni, dovevo procurarmi tutte le informazioni necessarie muovendomi da un capo all’altro dell’accampamento.

Logicamente fra un percorso e l’altro non mancava mai di incontrare ufficiali, sottufficiali, graduati e “nonni” ognuno con una richiesta più importante delle altre.

Il comandante poi mi considerava una specie di attendente, pretendendo di essere servito.

Nel tardo pomeriggio, prima del rancio serale, a volte aveva voglia di frutta e io dovevo portargliela.

Al campo, per evitare sprechi, i viveri arrivavano razionati, al massimo con qualche piccola eccedenza, quindi, prima del rancio tutto era calibrato perché ogni soldato ricevesse la propria razione: primo, secondo, un frutto. Quando giungevo in cucina con la richiesta del capitano venivo accolto da mugugni e lamentele degli addetti, in maggioranza liguri.

Poi passato il momento e raccattato qualche frutto, sistemato pomposamente in un piatto, mi veniva consegnato il tutto con il viatico di un’ultima imprecazione in “zeneise”.

Non potevo dargli torto. Non mancarono le volte in cui alcuni di noi non mangiarono o lo fecero in ritardo per disguidi nei rifornimenti. Il comandante, inoltre, come gli ufficiali del ‘700, amava avere alla propria tavola, oltre ai subalterni, tutti coloro che si presentavano al nostro accampamento per una qualche ragione, civili o militari. I più rifiutavano cortesemente. Una volta due graduati della Forestale, giunti al campo a causa di un incendio, accettarono l’invito.

Quando comunicai la novità alla cucina, ricordo il disappunto del capocuoco, quel giorno alle prese con una scarsa quantità di pasta e di carne.

A causa delle mie mansioni ero sempre in movimento, ma pochi capivano che, anche se non marciavo, lavoravo come gli altri, in più dovevo partecipare alle esercitazioni e ai tiri con il mortaio e comunque, mentre gli altri godevano di una, se pur limitata, libera uscita, io dovevo preparare gli ordini del giorno, affiggerli al tabellone e quant’altro, e non potevo allontanarmi se prima non avevo terminato il lavoro. E certe volte era troppo tardi per uscire.

Lo stesso accadeva per la doccia. Il più delle volte bisognava andare a Linguaglossa e io non sempre potevo seguire i miei compagni perché ero indispensabile al campo.

Un giorno ci accampammo nei pressi di un viadotto sulla strada Messina- Catania, sul greto di un fiume, dall’ampio alveo ma dalla portata ridotta quasi a un ruscello, che, attraversando un folto canneto, scorreva lentamente e sinuosamente fra grossi massi e arbusti. Oltre il canneto echeggiavano richiami di persone lontane.

Con il passare dei giorni fantasticavo su chi o cosa ci fosse oltre quelle canne. Forse delle ampie e profonde pozze d’acqua in cui i ragazzi potevano nuotare.

Il pensiero di potermi rinfrescare nel fiume mi fece desiderare di attraversare quel folto canneto.

Un giorno, approfittando di un momento di calma, per l’assenza della compagnia, con un pretesto, riuscii a farmi sostituire alla sbarra, mi recai nella mia tenda, presi uno slip pulito e un piccolo asciugamano e quindi mi incamminai verso il canneto.

Sulla strada incontrai Mauro, un amico, lo invitai a seguirmi. Non ci pensò due volte, venne con me senza preoccuparsi del ricambio.

Ci inoltrammo nel canneto. Uscimmo dalla parte opposta. Mi sembrò di stare in un altro posto, lontano.

Rimasi però deluso, non c’erano né grandi pozze d’acqua, né persone, c’era lo stesso paesaggio che ci eravamo lasciati alle spalle: arbusti e grossi massi.

Seguimmo a ritroso il corso del fiume, che qua e là formava piccole e poco profonde pozze d’acqua. Mauro ed io ci dividemmo, cercando un punto dove immergerci.

Era metà mattinata ma faceva già caldo e c’era un grande silenzio, interrotto solo di tanto in tanto da qualche raro cinguettio.

Individuai fra alcuni grossi sassi una pozza abbastanza larga attraversata da una debole corrente. Mi avvicinai, mi tolsi gli scarponi, le calze e arrotolai i pantaloni fino alle ginocchia per entrare in acqua e sondare il fondo. Il livello non arrivava alle ginocchia. Calcolai che se mi fossi disteso, appoggiandomi a un masso, avrei immerso quasi tutto il mio corpo.

Mi spogliai, deponendo con cura l’uniforme e la t-shirt accanto agli scarponi, agli slip e all’asciugamano. Rimasi in mutande, senza vergogna. Mi immersi, appoggiando la schiena ad una grossa pietra.

Chiusi gli occhi, mentre la corrente mi cullava e un grande silenzio mi avvolgeva. Quasi come un ricordo che saliva dalla profondità della mente affiorarono sulle mie labbra alcuni versi della poesia “I fiumi”, di Ungaretti:

“Stamani mi sono disteso

In un’urna d’acqua

E come una reliquia

Ho riposato.”

Ebbi un momento di commozione. Non potevo certo paragonare la mia esperienza a quella tragica del poeta, ma per un attimo mi identificai con lui. Pensai ai fiumi della mia vita.

Primo fra tutti la Bormida. Ricordai le domeniche dei primi anni Sessanta trascorse là dove allora c’era “La Baracca”, prima dei grandi esodi domenicali verso il mare degli anni successivi.

Con tutti i mezzi, in primis lambrette e biciclette, gli alessandrini raggiungevano le sponde della Bormida, per un bagno o per prendere il sole, facendo poi un pic-nic oppure mangiando ai tavoli della “Baracca”, dove servivano soprattutto vino e bagnetto.

Spesso, nel pomeriggio, c’era il momento danzante. Sulla pista di cemento, con la musica di un’orchestrina o di un jukebox, giovani e meno giovani si cimentavano in balli moderni o nel tradizionale “liscio”.

Sulle sponde del fiume spesso si incontravano i vicini di casa, che in costume da bagno discutevano con i miei genitori sempre degli stessi problemi del condominio di cui parlavano sulle scale di casa o in cortile.

Un altro fiume a cui pensai fu inevitabilmente il Tanaro. Quante volte avevo accompagnato mio padre sul lungo Tanaro Solferino a guardare i pescatori, sui barcè, gettare le reti quadrate nei pressi del ponte della Cittadella, là dove la corrente era più impetuosa e faceva paura.

Quante storie tragiche avevo ascoltato su questo fiume e alla sola vista provavo timore.

Pensai poi al Basento, che bagna Potenza, la città d’origine della mia famiglia.

Avevo sempre e soltanto visto questo fiume dall’alto degli 800 metri sul livello del mare della città, ma lo conoscevo grazie alle narrazioni di mio padre, che lo aveva eletto a luogo dei suoi giochi d’infanzia, spesso pericolosi.

Il Basento era il simbolo di quelle radici che a me e alla mia famiglia, trapiantata ad Alessandria, mancavano.

Altri, come i miei genitori, erano giunti in città per lavoro, ma erano stati seguiti spesso da parenti e amici, alla ricerca di un avvenire migliore, ricreando in parte quei legami che avevano lasciato nelle terre di provenienza. Noi non avevamo parenti in Alessandria e gli amici più cari erano tornati nelle città d’origine o si erano trasferiti altrove.

Avevamo buoni rapporti con tutti ma non avevamo radici. A volte avevo provato “invidia “verso qualche mio compagno di classe ospite a pranzo presso nonni o zii che abitavano nelle vicinanze della scuola. A me ciò non poteva accadere, i miei parenti vivevano tutti lontano.

Il rombo di un veicolo in transito sul viadotto interruppe i miei pensieri. Mi resi conto che era passato molto tempo, troppo. Uscii a malincuore dalla pozza. Mi asciugai con il piccolo asciugamano che avevo portato con me. Mi cambiai lo slip e per alcuni secondi fui nudo di fronte alla Natura, mi sentivo libero. Mi rivestii. Tornai sui miei passi. Chiamai Mauro, che mi raggiunse poco dopo. Insieme, mesti e senza dire una parola, ci incamminammo verso il canneto.

Egidio Lapenta

 

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*