Renzi, il “centro” e la “sinistra”

Ho ascoltato con vivo interesse le conclusioni di Matteo Renzi all’XI Leopolda di Firenze del 21 novembre ultimo scorso. Nei suoi confronti c’è, almeno da sei anni, molta animosità, via via cresciuta. È, assai spesso, detestato. Ben al di là delle opzioni discutibili, o deplorevoli, o inaccettabili della sua vita dell’ultimo biennio. Il suo piccolo mondo, numeroso e convinto, alla Leopolda nei giorni scorsi gli ha però rinnovato il suo affetto, la sua stima e la sua fiducia; e lui lo ha gratificato con la sua effettiva eloquenza. Dietro a certi voli pindarici a mio parere trapelava però una preoccupazione sul finale delle vicende in corso: un’ansia nascosta sul destino prossimo di Italia Viva e pure suo, celata dietro un velo di sfida, com’è nella sua psicologia: un’ansia degna del dicembre 2016 in cui il leader credette, e fece credere, che egli si stesse giocando, sul referendum sulle riforme istituzionali, tutto il proprio destino. Probabilmente oggi considera – con sicumera apparente – elezione del presidente della Repubblica e prossime elezioni politiche – che prevede, o dice di prevedere, per il 2022 – come l’ultima spiaggia. O politicamente si rifà in questo breve intervallo tra elezione del presidente della Repubblica ed elezioni politiche o – col suo 2% – potrà farci la birra, e dovrà trasformare le sue discusse operazioni finanziarie-culturali nel mondo in scelta di vita nuova, post-politica. Per me è questo il vero senso della sua citazione del discorso che Shakespeare aveva messo in bocca a Enrico V nel giorno di San Crispino prima della battaglia di Azincourt del 25 ottobre 1415, che rese il giovane sovrano inglese re pure di Francia. Il succo era il seguente: ci danno per vinti, ma gliela faremo vedere noi “chi siamo” e di che tempra siamo, trionfando su un nemico che ci dà per liquidati, avendo in apparenza ragione. Ma questa, che pare una sfida, potrebbe anche sottendere la consapevolezza di essere davvero in una situazione disperata. Tuttavia lo dico con circospezione perché il personaggio ha sette vite come i gatti e non si può dire “Renzi” “sinché non l’hai nel sacco”.

Pensando a tanta animosità contro Renzi, espressa in tanti “travagli”, a me comunque è venuto in mente un altro Shakespeare rispetto a quello citato da Renzi: quello del Giulio Cesare, laddove Marco Antonio faceva il discorso funebre in morte di Cesare, dicendo che “il male commesso dagli uomini vive spesso anche dopo la loro morte, mentre il bene viene spesso sepolto con le loro ossa”. Infatti Renzi ha pur fatto le seguenti “cosette”: I) Sin dalla prima riunione della Direzione del PD in cui era diventato segretario, nel 2013, ha fatto aderire il PD al Partito Socialista Europeo, mentre per sette anni i suoi predecessori, compreso Bersani, non l’avevano fatto; II) Ha governato piuttosto bene per mille giorni, dando pure diritti civili importanti che anteriormente non erano stati mai dati; III) Ha dato un contributo decisivo – tanto che per questo Berlusconi ruppe con lui il cosiddetto Patto del Nazareno per le riforme istituzionali – all’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica; IV) Anche se non è riuscito a darci un monocameralismo cui la sinistra aveva sempre aspirato dal 1946 (salvo poi difendere il bicameralismo contro Renzi), ha provato a fare una riforma istituzionale che dava il potere di votare la fiducia ai governi alla sola Camera, e riduceva molto le prerogative inutilmente “doppie” del Senato, e ha cercato di riportare allo Stato competenze “concorrenti” assurdamente date alle Regioni da Bassanini e compagni, e ha proposto una legge elettorale che voleva garantire il 55% dei voti al partito più votato al secondo turno, anche se conteneva storture da correggere nello specifico, come poi chiese la Corte Costituzionale (il che, come si sa, non fu approvato dal popolo italiano; ma non sempre la maggioranza “ha ragione”, anche se è giusto che vinca); V) Quando Salvini dalla spiaggia del Papete ha aperto una crisi del governo, chiedendo i “pieni poteri”, convinto di avere già le elezioni politiche anticipate in tasca, l’ha fermato “sul bagnasciuga” promuovendo il Conte bis tra PD e M5S; VI) Ha poi messo in crisi il Conte bis, creando le condizioni per la nascita del governo Draghi, che è certo superiore ai precedenti nell’opera contro la pandemia, e nella gestione del piano e delle riforme che ci porteranno 208 miliardi di prestiti agevolatissimi da parte dell’Unione Europea, e che costituisce oggi uno dei governi più autorevoli in Occidente.

Tutto ciò resta all’attivo della vita politica di Renzi nella Storia. Non dubito che un giorno glielo riconosceranno anche i sassi. Dopo di che non ci dimentichiamo di certo dei suoi rapporti a dir poco inopportuni, e anzi deplorevoli, con l’Arabia saudita e altri Stati, o degli eccessi di arroganza e narcisismo, e soprattutto di una scissione sbagliata – come quella di Bersani, D’Alema e compagni – dal PD: un partito che oltre a tutto aveva eletto Renzi segretario per due volte tramite primarie, e la seconda volta dopo un fallito referendum epocale e dopo una fase di suo ritiro “dal campo”.

Probabilmente Renzi ha delle grandi capacità come uomo di governo, e assai meno come capo partito. Sono due mestieri diversi, anche se non opposti. Come statista e anche come uomo che si muove nelle istituzioni ha “molti numeri”, ma è troppo egocentrico e “leader solitario”. È ben poco capace di coinvolgere parte degli avversari interni e di trasformare l’avversario interno in amico, ossia di mediare con i suoi compagni, come persino dittatori senza scrupoli come Mussolini o peggio dovevano fare nella loro area. In caso diverso avrebbe trovato, a suo tempo, tra il 2013 e il 2016, un modus vivendi con chi non la pensava come lui, persino ridimensionando la parte contraria, ma anche concedendo agli avversari interni spazi politici, invece di proporre l’autolesionistica, e troppo esplicitamente aggressiva, “rottamazione” per farli fuori politicamente. Persino ora fa fatica a intrattenere rapporti continuativi con potenziali alleati politici, come Carlo Calenda.

Ma, ciò detto, tutto quello “di buono” di cui ho detto resta ben fermo: lo statista è molto migliore del “capo” partito (anzi, “partiti”).

Alla Leopolda Renzi ha fatto un discorso conclusivo molto efficace sul piano dell’eloquenza, ma ha tenuto le carte coperte sui veri nodi della situazione: ovviamente non poteva dire chi per lui dovrà presiedere la Repubblica tra due mesi, ma qualcosa di più sui passi per arrivarvi poteva dirla. Poteva dire anche qualcosa di più sulla legge elettorale con cui si dovrebbe andare a votare alle elezioni politiche.

Proverò però a decodificare le cose, qua e là ragionando sugli indizi, come nella teoria dei giochi o come gli esperti nella previsione del tempo, che però in politica sono ben più fallibili.

Due sembrano essere i punti chiave messi in luce: una previsione e una scelta di campo.

La previsione – sincera o strumentale – è che nel 2022 si voterà alle elezioni politiche (senza attendere la scadenza naturale del 2023). Dice che prevede – a suo dire suo malgrado – che accadrà così perché Letta – ha fatto capire – è limitato nel suo potere dal fatto che il listone di parlamentari in carica – anche rimasti nel PD – era stato scelto da Renzi, e non vedrebbe l’ora di farsene uno suo; la Meloni, poi, è sottorappresentata, come partito, in parlamento, e deve sfruttare un momento in cui Fratelli d’Italia è, più o meno, il primo partito (o quasi) secondo i sondaggi; e la Lega agogna a portare il suo leader a Palazzo Chigi. Non si capisce se questo discorso sia stato una diagnosi oppure un auspicio. Propendo per la “previsione”, niente affatto “desiderata”. Italia Viva, infatti, è ormai un movimento ai minimi termini, un cespuglio, neanche tra i maggiori. Siccome in questo Paese gli orientamenti sono ormai molto mobili, e come “Enrico V” Renzi attende che l’impensabile diventi possibile, non ha certo interesse ad andare a elezioni anticipate. Se si votasse nel 2022 il suo partito sarebbe finito: meglio attendere e sfruttare le contingenze, in un’epoca storica in cui gli orientamenti del popolo sovrano sono mobili.

Se le elezioni fossero così vicine, la spinta a fare Draghi Presidente della Repubblica sarebbe fortissima e quasi irresistibile. Ma con questi chiari di luna, Draghi potrà resistere sino al 2023? Glielo consentirà una destra già rappresentativa di mezzo Paese per anni e che però più passa il tempo e più rischia di andare in pezzi, come le divisioni palesi tra “i tre” (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia), per non dire delle disastrose – per loro – recenti elezioni in tutte le grandi città, attestano? E glielo consentirà un M5S in cui alla testa – pur essendo leader palesemente a “sovranità limitata” – c’è uno che si chiama Giuseppe Conte, il quale si sente un re legittimo spodestato, e se lo sente ripetere sempre dal “Fatto quotidiano”?

Io non credo minimamente che Renzi si appresti a far cadere il governo Draghi. Se lo pensasse sarebbe – alla luce del ragionamento che ho provato a fare – un povero fesso, e mi pare che questa sia proprio l’ultima cosa che si può pensare di lui. É vero che c’è stato qualche voto di convergenza con la destra in parlamento, ma su cose minime e probabilmente casuali. Se proprio si vuole fare della “dietrologia”, vi si può vedere una sorta di avvertimento, quasi Renzi dicesse: “Ancora una volta, come già alla crisi del secondo governo Conte, mi volete trattare da appestato. Attenti a voi perché il campo è largo e nessuno ci può tagliare fuori impunemente”. Ma ciò posto – ed è stato evidentissimo anche nei discorsi alla Leopolda – Renzi è lontanissimo dal sovranismo populista. É vero che per lui il M5S è la terza gamba del populismo (dopo Lega e Fratelli d’Italia): una gamba che se cadesse farebbe terremotare il sistema e aprirebbe spazi impensabili, come al gioco delle boccette (e bocce) in cui quando ci sono troppe boccette attorno al boccino su cui “incollarsi”, il colpo in mezzo scompagina tutti “i giochi” e li riapre. Ma chi glielo farebbe fare a non attendere che sia proprio il contesto già in atto a logorare il M5S palesemente diviso tra un’area centrista di governo (Di Maio) e una “per ora” di sinistra (Conte)?

Quindi io propendo con forza a credere che Renzi sia più draghiano che mai. Il suo interesse primario sarebbe che Draghi durasse sino al 2023. C’è però stato il misterioso pranzo di Renzi con Gentiloni, attuale autorevole Commissario europeo all’Economia nella Commissione Europea, svelato da “Repubblica”. Può darsi che in caso di crisi del governo Draghi – non voluta, ma possibile per calcoli meschini altrui, oppure per logoramento del premier stesso – un personaggio di spessore come Gentiloni potrebbe essere spendibile per Palazzo Chigi, come lo sarebbe pure per la presidenza della Repubblica, anche se è molto difficile che un altro del PD diventi presidente della Repubblica. Certo Gentiloni sarebbe uomo che da una parte o dall’altra sarebbe coesivo qui e rassicurante – come Draghi – per l’Unione Europea, che sta prestando all’Italia 208 miliardi di euro. Piuttosto da talune frasi del discorso di Renzi – molto europeista cari miei – ho avuto l’impressione che Draghi, possibilmente dopo il 2023 ed eventualmente al posto di Gentiloni, sarebbe un ottimo e unitivo candidato alla Presidenza della Commissione Europea: il governo – pure a poteri limitati – dell’Unione Europea stessa, quando nel 2024 scadrà il mandato di Ursula von der Leyen. Perciò non credo affatto che Renzi desideri spostare Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale e far finire in anticipo questa legislatura. Questo però potrebbe essere l’interesse di Fratelli d’Italia e della Lega “di Salvini”, che però potrebbero non riuscirci. Secondo me Renzi proverà a tessere la rete per far diventare presidente della Repubblica una donna importante, magari d’area moderata. E potrebbe riuscirci perché spostare Draghi al Quirinale, persino al di là della volontà dell’interessato, potrebbe essere avventurismo politico-economico e una soluzione più unitiva, o meno divisiva, non credo ci sia.

L’altro punto decisivo del discorso di Renzi a conclusione della Leopolda è stato la fortissima opzione per il Centro. A me questo non piace e non interessa perché io ho sempre sostenuto uno schema bipolare, di alternativa di sinistra o comunque democratica tra due partiti o almeno poli opposti in un contesto maggioritario possibilmente a due turni. E il 90% del mio notorio renzismo – senza partito – prima dell’uscita di Renzi dal PD, è stato legato al tempo in cui si poneva come riformatore dello Stato in tale direzione.

Il ragionamento di Renzi al proposito è stato, anche alla Leopolda, che in tutto il mondo attuale – da Tony Blair e il suo New Labour a Macron, a Biden contro Trump, e così via – il riformismo può vincere, invece di prendere un sacco di legnate, solo dal “centro”. É evidente che Renzi aveva fatto la scissione dal PD pensando che ci fosse grande spazio per un centro forte che non avendo potuto egemonizzare il PD poteva almeno incalzarlo impedendo una sua deriva a sinistra, ritenuta sinonimo di disfatta storica. Analogamente Bersani e compagni fondarono Articolo Uno – Libertà e Uguaglianza pensando che ci fosse un grande spazio a sinistra, dato il neo-centrismo attribuito al PD. Bene, si sono sbagliati tutti e due. Lo schema di un’alleanza tra diversi fra centro e sinistra o tra sinistra e centro, sostenuto a parti inverse da Italia Viva come da LeU – scissionisti per tale ragione – è stato totalmente falsificato dalla realtà. Ritengo “vero” che senza “centro” non si vince, ma il centro, ci piaccia o ci spiaccia, ormai può stare solo schiacciato o con la destra (Forza Italia) o con la sinistra (PD “prima” delle dissennate scissioni di LeU come di Italia Viva). Non mi risulta che Blair abbia espulso dal Labour neanche l’ala trockijsta o che Biden abbia escluso Sanders. Le logiche di sinistra da “vengo anch’io, no, tu no” facevano ridere il sottile Jannacci, purtroppo inascoltato, sin dal Sessantotto.

Sembra – persino contro tutto quello che ho creduto e desiderato per decenni in tempo remoto – che il partito moderno sia una sorta di macro-area di uniti nella diversità, una galassia, o un convoglio, che però ha da andare nella stessa direzione, pur tra vari malumori che sono nel conto. Purtroppo in Italia a sinistra questo non è stato compreso né da Renzi e “amici” suoi né da Bersani e compagni. Ma finché non si imparerà a essere – anche in concordia discorde o discordia concorde – a stare insieme, uniti nella diversità, talora un po’ a pugni, ma fraternamente, e comunque più vicini reciprocamente che con tutte le forze avversarie della propria maggioranza interna del momento – si sarà condannati allo “sconfittismo”. Renzi è un ottimo leader di governo, e pure Bersani lo è stato e sarebbe, e lo fu persino persino D’Alema come ministro degli esteri, ma come leader di partito hanno fatto e fanno acqua: infatti la sinistra, post-comunista, non sopporta il “riformismo di centro”, da Craxi a Renzi; e il centro, post-democristiano “spesso” non sopporta il “riformismo di sinistra”. Sono due correnti riformiste, una di destra e una di sinistra, che vogliono rottamarsi a vicenda e che per tale inimicizia perdono entrambe facendo il gioco della destra, ingigantita sempre da autogol del genere della “sinistra”. Se vogliono vincere, invece, i due riformismi, con buona pace di una grande area più grigia in mezzo, debbono convivere realizzando una qualche armonia dei contrari. Altrimenti perdono. Punto e basta.

Allora ha ragione Letta, che nel discorso, splendido, da neo-segretario del PD pareva averlo compreso?

Non è chiaro oggi. Ma per me ormai a sinistra ha ragione il PD, che – contro ogni mia previsione su un matrimonio tra post-comunisti e post-democristiani che mi era parso proprio “mal combinato” – ha storicamente tenuto, mente quelli usciti dallo stesso utero – da Rifondazione Comunista a LeU o Italia Viva – sono tutti o estinti o mezzi morti. Ha ragione il PD, anche se ha assolutamente bisogno di avere un muro maestro “centrista” e un altro “più di sinistra”, pena il durare (ma non vivere). Letta è un segretario di alto profilo culturale e credo anche morale, ma fa un gioco sempre “di rimessa”, pieno di prudenza e buon senso, costantemente “in difesa”, come quegli eredi di antichi possedimenti o imprese che spese pazze non ne fanno, ma restano fermi a quel che hanno ereditato dal papà. La Storia non si fa così. Non si può essere eterodiretti facendo credere, e persino credendo, di decidere la storia. Il troppo decisionismo diventa avventurismo politico, ma bisogna stare molto attenti a non sbagliare solo perché a decidere sono sempre altri. Ma qui io spero molto di sbagliarmi perché sono assolutamente convinto del fatto che tutto quello che si può fare in Italia per una politica riformatrice passi ormai, storicamente, per il PD (ma con quelle due ali opposte di cui ho detto, che per varie ragioni sono indispensabili in ogni area progressista). Io sono vecchio, e mi piace fare l’osservatore e battitore libero, ma sono convinto che di lì, dal PD, in Italia, ormai passi, per riformatori e riformisti, quel che passa il convento della storia: sia che quello che passa il convento della storia sia un brodino insipido o un’ottima pasta alla carbonara. L’ho persino detto e consigliato ai miei amici di “Città Futura”.

di Franco Livorsi
(franco.livorsi@alice.it)

1 Commento

  1. Basta sapere quanti elettori dei 5 stelle diventeranno diventeranno europeisti e quanti rimarranno scettici, quanti garantisti e quanti giustizialisti, quanti per le grandi infrastrutture e quanti contro
    Così si saprà se allearsi coi 5 stelle è la strada giusta per il PD o se una parte significativa di loro rafforzerà la destra che proprio debole non è

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