Riflessioni su “The Irishman”

“I Heard You Paint Houses”, “ho sentito che imbianchi case”. O forse sarebbe meglio dire “le arrossi”. Un’opera d’arte su muro. Senza bisogno di pennelli, né di rulli, né di vernice. Basta una pistola, rigorosamente nuova e “pulita”, della quale liberarsi appena finito il lavoro. Basta un solo colpo in testa, poco importa se alla mtempia o in mezzo agli occhi, con lo schizzo di sangue pronto a dipingere con il vigore mortale della sua secchiata. Basta un codice con cui ordinare l’omicidio, basta la glaciale perfezione del killer, basta la sua (quasi) completa assenza di rimorsi, la sua totale affidabilità nella causa criminale come implacabile esecutore.
Senza porre domande, senza interessarsi o voler capire troppo quello che sta accadendo intorno, le identità delle sue vittime, i motivi delle sue esecuzioni. C’è solo il lavoro, sporco, pericoloso, ma da fare. Per oltre 50 anni, fra ascese, cadute, amicizie, arresti, anelli, scelte dolorosissime, tradimenti, giudizi, figlie perdute e tardivi rimpianti.
Ma in “The Irishman”, non c’è (più) alcun eroismo nella criminalità, non c’è (più) alcun mito, non c’è (più) alcun ritmo serrato. C’è la Storia, c’è la riflessione, c’è il passo cadenzato della senilità e della memoria, c’è una strabordante malinconia. Una malinconia sulla quale tessere una celebrazione, un canto funebre, un dolente epitaffio d’amara e cinefilissima coerenza.
Il nuovo film di Martin Scorsese, il più lungo della sua carriera, è un grande affresco monumentale che racconta attraverso anni di storia americana (si va dagli anni ’50 fino al 2000) visto con gli occhi della mafia, o meglio dei mafiosi, la vera storia di Frank ‘l’Irlandese’ Sheeran (Robert De Niro) veterano della seconda guerra mondiale e sicario della mafia della famiglia di Russell Bufalino (Joe Pesci) e in particolar modo il ruolo che ha avuto nella scomparsa del leader sindacale Jimmy Hoffa (Al Pacino), ruolo che, a scanso di equivoci, viene reso con straordinaria efficacia nel titolo italiano del libro di memorie di “Frank, l’Irlandese: Ho Ucciso Jimmy Hoffa” di Charles Brandt, da cui è tratto il film.
Vedere Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci e anche Harvey Keitel sullo stesso schermo è un esperienza celestiale che nessuno può portarci via in cui le recitazioni di tutti gli attori all’interno della pellicola sono sempre un vero e proprio toccasana per lo spettatore, soprattutto guardando un film di Scorsese indipendentemente dal titolo che si sta guardando.
Tra un flashback e l’altro, attraverso il flim sfilano la Baia dei Porci, la crisi dei missili cubani, l’assassinio di Kennedy, le bombe sulla Serbia, ma a Scorsese come sempre non interessano le istituzioni, il potere, insomma la Storia, ma gli Uomini. I piccoli, fallibili, vulnerabili uomini come Frank, che dopo una vita tutta delitti e segreti si trova ad aspettare la morte, solo, in una casa di riposo, accudito da un’infermiera che nemmeno sa chi fosse Jimmy Hoffa.
“The Irishman”, in qualche modo, rimane come l’ultimo vero capitolo del viaggio cinematografico nel genere gangster/mafioso di Scorsese: se “Mean Streets” è stato l’inizio, “The Irishman” è senza dubbio la fine di quel viaggio, come se quel viaggio fosse il suo “C’era una volta in America” visto con gli occhi del grande Marty attraverso 4 grandi film (Mean Streets, Quei Bravi Ragazzi, Casinò e The Irishman).
Questo è anche il primo film ad essere distribuito sulla piattaforma streaming Netflix (con una uscita limitata nelle sale cinematografiche), cosa ben curiosa da parte di Martin Scorsese, da sempre stato uno sperimentatore delle nuove tecnologie cinematografiche.
A parte una durata eccessiva (3 ore e 30 minuti) sempre arricchita da un montaggio lontano dal solito tamburo battente come quello di “Quei Bravi Ragazzi”, “Casinò” o “The Wolf of Wall Street” ma accettabile, della sua amica e collaboratrice di sempre Thelma Schoonmaker e uno schedario di frasi già utilizzate, “The Irishman” è memoir di un gregario nato, un viaggio nella amicizia e nel tradimento che riepiloga l’intero percorso di Martin Scorsese iscrivendolo in una luce testamentaria e definitiva.

Riccardo Coloris

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