Il ritorno della politica internazionale

Si sta chiudendo la stagione politica dominata dall’emergenza covid. L’Economist prevede che il 2022 vedrà un attenuarsi del virus, con sacche di recrudescenza soprattutto nei paesi più poveri. Grazie ai vaccini e ai nuovi farmaci per contrastare l’infezione al suo insorgere, entro un paio d’anni dovremmo tornare – quasi – alla normalità. Come già sta provando a fare – con una fuga in avanti – la Gran Bretagna di Boris Johnson, dove, nel discorso pubblico, il covid è pressoché scomparso. È improbabile, però, che si abbassino i riflettori sullo sforzo immane di interventismo economico che tutti i governi occidentali hanno intrapreso per reagire al crollo di redditi, occupazione e fiducia falcidiati dalla malattia. Ciò che, invece, succederà è che la sfida economica cambierà prospettiva e contesto. Non sarà più vista, e vissuta, come la risposta all’attacco del virus. In campo entreranno altri fattori, e attori.

È ciò che già si intravvede con lo scontro alla frontiera polacca. Dove i migranti sono soltanto l’agnello sacrificale su uno scacchiere geopolitico in tumultuoso rimescolamento. Che si fa fatica a decifrare. E che opportunisticamente molti leader politici vorrebbero rappresentare in modo semplicistico e manicheo, come la proterva pretesa della Russia di Putin di dettar legge utilizzando l’autocrate bielorusso come sua testa di ponte. Giustamente, invece, Romano Prodi, ieri da queste colonne, richiamava l’attenzione sulle responsabilità dell’Unione europea, e in particolare di quegli stati nordici che, nel passato anche recente, si sono ben guardati dal farsi carico dell’emergenza migratoria quando impattava sulle sponde meridionali, con l’Italia in primissima linea. E oggi si trovano a dover gestire da sole un’emergenza analoga.

Con l’aggravante che, nel corso degli anni, il problema si è complicato. La Bielorussia oggi è, infatti, uno snodo chiave dello scontro energetico che, col costo del metano alle stelle, sta alimentando le spinte inflazionistiche delle economie industriali e rischia di diventare un cappio al collo della stessa ripresa trainata dagli ingenti finanziamenti pubblici. E, al tempo stesso, un importante ostacolo ai tentativi già così affannosi di limitare l’uso del carbone come principale fonte di inquinamento. Nascondere – come fa la van der Leyen – la gravità ed esplosività del problema dietro la foglia di fico della violazione dei diritti umani perpetrata da Lukashenko significa non voler vedere il nuovo scenario geopolitico con cui l’Europa è chiamata a confrontarsi.

Uno scenario profondamente influenzato dal brusco ripiegamento americano – voluto da Trump ed eseguito maldestramente da Biden – dall’Afghanistan e, di conseguenza, da tutta l’Asia centrale. Lasciando quel territorio alla contesa tra Russia e Cina. E alle diverse logiche di penetrazione globale: con Pechino che punta sull’espansionismo – e colonialismo – economico mentre Mosca si affida soprattutto alla presenza e all’influenza militare e culturale. Due logiche accomunate, però, dal fatto di premiare lo sviluppo e di non prevedere alcuna interferenza di tipo umanitario.

Al cospetto di questo scenario, l’Europa appare sempre più impotente. Oscillando tra ideologismo e realismo. Ha cercato di barcamenarsi di fronte alle palesi violazioni di due stati membri importanti come la Polonia e l’Ungheria, e oggi vorrebbe mettere all’indice la protervia della Bielorussia. Mentre è incapace perfino di pretendere gli stessi pesi e le stesse misure per regolare gli ingressi e i flussi migratori all’interno dei propri confini. Al tempo stesso, pensa di cavarsi dall’impasse in cui si trova incolpando il solito Putin di ordire l’ennesima congiura ai suoi danni. Magari trattando sottobanco sia con Putin che con Lukashenko perché non taglino i rifornimenti dei metanodotti che controllano.

Sarebbe meglio aprire subito gli occhi, e farli aprire ai propri elettorati. Dopo una parentesi felice di gestione keynesiana e domestica, la politica economica si sta avvitando e ingarbugliando in una spirale internazionale. In cui l’Europa rischia di diventare facile preda delle proprie divisioni.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 15 novembre 2021).

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