Rosselli e noi. Liberalismo e socialismo nella crisi della democrazia

Il 3 giugno scorso è apparso, su Repubblica, un interessante articolo del famoso filosofo politico Massimo Cacciari riguardante la lezione ‘liberal socialista’ di Carlo Rosselli, e la relazione di questa con la crisi della democrazia parlamentare e la difficile difesa di essa di fronte ai risorgenti populismi e nazionalismi. Gli ha risposto l’8 di giugno, sempre dalle pagine del giornale di Largo Fochetti, Valdo Spini, che a distanza di 83 anni dall’omicidio dei fratelli Nello e Carlo Rosselli, per mano dei fascisti francesi e italiani, esalta la cultura liberal-socialista come essa in grado di unificare ispirazioni cattoliche, socialiste e liberali alla La Malfa, nel progetto del centrosinistra italiano, capace, inoltre, in quella fase di sviluppo produttivo, di coniugare giustizia sociale e intervento politico in economia con la sostanza del liberalismo democratico. Vi è da notare come la lezione di Carlo Rosselli è caratterizzata dalla netta  scelta per il metodo liberale del socialismo, ovvero, per la difesa della libertà personale e di quelle democratiche, per il rifiuto di qualsiasi dittatura di partito, pur esso di difesa operaia, e per la caratterizzazione della democrazia come regime nel quale, grazie alla giustizia sociale e l’intervento statale in economia, si completa un processo di maturazione civile delle masse che vanno inserendosi dentro la struttura dello stato liberale. In effetti, il Rosselli, senza lo sconvolgimento dei vecchi equilibri determinato dalla Grande Guerra e dalla irruzione delle masse nella vita politica, sarebbe restato, come molti altri del resto, un mazziniano democratico e liberale. A spingerlo oltre, rispetto alle passioni e alle idee risorgimentali dell’ottocento, fu il problema storico della democrazia, problema che si poneva in forme nuove rispetto all’anteguerra date le questioni del suffragio universale, date le nuove questioni poste dalla partecipazione alla politica di vasti strati popolari un tempo esclusi dalla vita civile dello stato. La soluzione a questi nuovi e intricati problemi divise in profondità il movimento operaio, come giustamente ricorda Massimo Cacciari, e sulla tematica della difesa del parlamento democratico si consumò la frattura fra socialisti e comunisti. La separazione in tal senso delle forze democratiche di allora oggi assume un significato molto meno dirompente; molto tempo è passato e le antiche questioni si sono attenuate sotto la spinta degli eventi storici che mutano modi di vedere le problematiche e le tradizioni più ostinate e coltivate nei decenni con cura.

Siamo di nuovo, tuttavia, a dover riqualificare cosa significa democrazia, sulla scorta di un attacco insidioso quanto in apparenza inarrestabile, portato dalle forze dette populiste, ma che più correttamente dovremmo definire nazionaliste e intrise di revanscismo religioso. In tale contesto Rosselli ci è utile, perché con esso si riafferma la necessità dell’eguaglianza sociale come terreno su cui sviluppare la libertà; senza questi ingredienti è impossibile impostare un rinnovato discorso politico di massa che ridia legittimità al processo democratico. Eppure vi sono problematiche che hanno alimentato l’attacco delle destre alla democrazia che vanno individuati, al fine di non restare al livello della propaganda etica e passionale, pur avendo certamente ragioni da vendere.

In prima istanza mi riferisco all’europeismo e alla distanza fra esso e il progredire dell’Unione europea che è unità di mercato fra nazioni in competizione; tale distanza ormai non è più vista e tematizza ma va, invece, riposta al centro, visto che l’Unione è ben scarsamente, o per nulla, europeista, ma semmai è una unità forzata e discorde fra progetti nazionali forti e altri deboli. Io credo che l’istanza centrale dell’europeismo di sinistra risieda nella ricerca dell’antidoto al massacro delle due guerre mondiali che ha profondamente ferito e sconvolto il vivere civile del continente. Da tale tragedia nascono le esigenze, intuite da Keynes già con la sua critica alla pace di Versailles, della cooperazione fra le nazioni per impedire la rinascita dei nazionalismi e per garantire la pace nel continente, attraverso la istituzione di una moneta comune e di accordi internazionali di commercio tesi al riequilibrio fra paesi esportatori e paesi strutturalmente in deficit, e, infine, il rifiuto netto di ogni politica deflazionista, come quelle ferocemente applicate in Germania dopo il 29’ e che causarono l’ascesa al potere di Hitler con tutto ciò che poi ne fu conseguenza quasi inevitabile. In effetti, l’europeismo di oggi, nega che il problema del continente sia la scarsa collaborazione dentro l’Unione e il drammatico deficit di memoria dei guasti politici portati dalla deflazione, che danni ben maggiori hanno conseguito rispetto alla più galoppante inflazione. Insomma, il progetto di Unione europea ha poco a che spartire con la cultura di sinistra e con la sua elaborazione del dramma delle guerre novecentesche sul continente.

Emerge poi un altro nodo critico in merito alle ricette del socialismo di Rosselli. Rosselli era convinto sostenitore di un socialismo che abbandonasse il marxismo determinista come, altrimenti,  era il propugnatore di un sistema sociale ad economia mista pubblico – privato. E’ possibile oggi, è questo il quesito che va posto, e che forse Cacciari pone ma con molta timidezza, rilanciare in toto il socialismo liberale di Rosselli avendo una sinistra così intrisa di economismo liberista? E’ compatibile una visione democratica socialista con una impostazione di politica liberista che da ormai trent’anni ha conquistato l’intero campo progressista? Oppure non si rischia così di restare prigionieri di una illusione, ovvero di combattere le destre e i populismi solo con appelli etici esangui, condividendo, tuttavia, con esse lo stretto terreno culturale in tema di grandi questioni economiche e della relazione fra pubblico e privato, fra sociale e iniziativa individuale?

La stessa idea di democrazia e di Europa vanno riviste nel profondo se prendiamo sul serio l’ipotesi del socialismo liberale così come ci è stata lasciata in eredità. Diversamente non saremmo un po’ crociani, finendo per pensare come il filosofo campano che quello di Rosselli era un ‘Ircocervo’ e che fra liberalismo e socialismo vi è opposizione pregiudiziale invincibile? Se l’assunto è che non si può che essere liberisti per essere contemporaneamente liberal – democratici e, dunque, progressisti, dovremmo concludere sconsolatamente, che non avremmo nulla da dire di fronte al dramma della crisi economica e al dilagare della disoccupazione di massa e dello sfruttamento sempre più intenso del lavoratore, e lasceremmo, così, spazio al dilagare delle destre nazionaliste e religiose.

Se una riflessione nuova ci porta a rivalutare il socialismo, pur col metodo liberale di dispiegarsi, allora dobbiamo dotare la sinistra di una cultura economica non liberista. La crisi ci spinge ad indagare soluzioni sociali più radicali, un nuovo intervento pubblico in economia, se vogliamo evitare la frammentazione sociale e politica più totale. Le politiche verso le classi medie, integrate con la piena occupazione con la classe operaia nel sistema liberal – democratico, hanno avuto forza fin verso i primi anni settanta, in quella fase nessuno poneva in discussione il modello a economia mista. Ma la crisi caratterizzata dalla inflazione, a sua volta causata da crisi monetaria, saturazione dei mercati, aumento dei salari e dei costi delle materie prime, hanno rotto un equilibrio che era di per sé meno solido di quanto apparisse. Il capitalismo, in sostanza, non tende ad equilibrarsi verso un punto alto della crescita, ma semmai il suo funzionamento ideale risiede nel basso utilizzo delle sue potenzialità, in un continuo spreco di risorse, nel cronicizzarsi di una crescita asfittica, che è il più comune modo in cui esso si manifesta. Non vi è crollo da un lato né si crea la condizione, a meno di grandi modificazioni e spinte sociali, per una nuova esperienza espansiva. Credo che sia il caso, dunque, di rivedere un modello del passato, come ci propose Rosselli, alla luce delle vicende economiche dell’ultimo mezzo secolo. Il processo rivoluzionario non è un colpo di stato ma semmai l’evolvere di un processo storico dai tempi lunghi, analogamente il riformismo deve prendere coscienza che il capitalismo non sopporta a lungo stabilizzazioni del processo sociale che richiedano costi alti al sistema del profitto e della remunerazione del capitale. Uscire dalla stagnazione secolare, come è stata definita, stabilizzare verso l’alto lo sviluppo sociale, creare una nuova spinta di base per il cambiamento del sistema capitalista attuale, è questo il compito delle forze progressiste se sapranno ispirarsi alle più vive radici della loro storia.

Rinasce, dunque, in vaste aree della sinistra l’esigenza di guardare al passato per trovare lo slancio e la profondità per proiettarsi nel futuro, e di questa necessità nuova sono segnale i due articoli di Cacciari e Valdo Spini sopra segnalati, a patto, tuttavia di integrare quelle esperienze di inizio novecento con le lezioni delle crisi economiche degli ultimi cinquant’anni.

Alessandria 13-07-2020                                                                               Filippo Orlando

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