Sini Carlo, Il gioco della verità. Semiotica ed ermeneutica, Jaca Book

Carlo Sini ‒ in: Il gioco della verità. Semiotica ed ermeneutica, (Jaca Book) ‒ s’interroga sui limiti del sapere, filosofico e non, chiedendosi/ci, al pari di Pilato, in che consista la verità e se, o forse meglio come, sia possibile parlare correttamente di essa. Tema da far tremar le vene e i polsi e su cui, sin dai pensatori presocratici, si è sempre misurata la filosofia occidentale, giungendo a due risposte (semplifico assai per ragione di spazio): quella chiamiamola metafisica ‒ per la quale esistono verità certe, definitive, incontrovertibili ‒, e quella nichilistico-relativistica, che rifiuta ogni assolutezza, ogni pretesa di poter mai giungere ad altro che non sia mera interpretazione/opinione.

Sini tuttavia non intende aderire a queste posizioni ‒ antitetiche solo in apparenza, ma entrambe alquanto dogmatiche ‒ suggerendo un’alternativa, sia rispetto a coloro e che negano ogni possibilità di giungere a qualche verità, sia ai nostalgici delle certezze senza se e senza ma. L’alternativa consiste in un mutamento di prospettiva e cioè nel vedere la verità non più come corrispondenza fra essere e pensiero ma come risultato di una pratica conoscitiva ed esperienziale condivisa ma sempre determinata, culturalmente e umanamente situata.

“Non si può togliere l’occhio dalla visione, non si possono togliere i segni dalla cosa di cui sono segni, non si può eliminare l’interpretazione dalla veritàˮ scrive Sini, rigettando l’ingenua ottica di chi crede sia possibile oggettivare il mondo (il cosiddetto reale), ovvero etimologicamente ridurlo ad un ob-iectum, ad una cosa posta di fronte a ognuno di noi: al soggetto che indaga/analizza dei dati di fatto, come se l’investigatore fosse fuori dal mondo e potesse vederlo dall’esterno o gli strumenti (tecnologici, logici, scientifici) da lui usati non incidessero sulla sua visione, che appunto è sempre e comunque parziale, legata all’occhio di chi osserva e alla luce (al contesto: fisico, intellettuale, culturale in senso lato) grazie a cui tale sguardo è reso possibile/concepibile.

Un modo alternativo di considerare la verità è semmai di coglierla quale evento, non già come una cosa in sé così com’è o ritenere la conoscenza un puro e semplice rispecchiamento della realtà. Non c’è insomma dimostrazione assoluta, esaustiva/risolutiva di alcunché. D’altronde chi/che dimostra la verità del dimostrare? C’è forse appena ‒ per dirla con Nietzsche ‒ un umano, troppo umano mostrare come si manifestano/rivelano a noi gli eventi e la loro evidenza. Ma, anche nell’odierna epoca del disincanto, l’uomo ‒ che non ritiene di avere più credenze e invece crede se non altro a questa sua fede ‒  ha ancora sete di Verità con l’iniziale maiuscola. E la stessa filosofia, nella sua ansia/intenzionalità totalizzante, corre a tutt’oggi il rischio di porsi come sapere fondante, onnicomprensivo. Come sapere all’insegna di una theoria, d’una risposta che sia indubitabilmente certa piuttosto che in quella d’una incessante domanda sul senso che ha il filosofare/pensare.

“Insistere sulla domanda”, puntualizza Sini, “significa insistere sul carattere indecidibile della verità e della sua «ricerca» (…). Non si tratta di praticare il dubbio teorico, ma si tratta di praticare un’etica della indecisione”. In altri termini l’invito è di mantenersi nell’apertura di un pensiero che non decide mai una volta per tutte e accetta di tollerare che le nostre verità abbiano l’iniziale minuscola e possano/debbano essere di continuo rivisitate/riviste e sapersi mantenere nel delicato equilibrio fra la pratica del domandare e del rispondere senza apriorismi o ricette buone per tutti i palati.

È quanto non si stanca di ribadire il nostro filosofo, insistendo pedagogicamente a sottolineare come ciò che è veramente autentico, in/da ogni punto di vista interpretativo, non sta in una visione a 360 gradi, ma giusto il fatto che ogni prospettiva rimane sempre parziale, essendo la sua verità un orizzonte che resta però: “la condizione stessa del vedere”. A costo di tediare il lettore lo rimarco ancora una volta: il nostro accadere nel mondo, il nostro eterogeneo modo di abitarlo e interpretarlo dipendono da pratiche di vita/parola sempre datate e transeunti. Non ha altresì alcun senso, insiste Sini, chiedersi cosa sia davvero il mondo, innanzitutto perché esso non è una cosa e poi perché proprio l’intento o la presunzione di definirlo/racchiuderlo in un significato finisce per svelare il tratto caratteristico dell’essere in errore.

Qualcuno potrebbe obiettare: al di là di tutti questi sottili distinguo ci sono comunque verità che nessuno può negare; ad esempio la banale ma realissima/certissima concretezza della sedia su cui stai seduto mentre scrivi intorno al libro di Sini. D’accordo, però sino a un certo punto. La sedia ‒ o la percezione che ho di essa ‒, come ogni altro evento suscettibile d’osservazione, è un fenomeno; termine che deriva dal greco antico phainomai (apparire, mostrarsi). Ciò che è vero, da tutti ammesso, è che si danno, accadono fenomeni. Però quando dobbiamo parlarne, quando vogliamo conoscere quanto abbiamo esperito entra in gioco il linguaggio, giacché non possiamo riferirci a una cosa senza utilizzare questo nostro strumento cognitivo/esplicativo e comunicativo. Fuori dal linguaggio (dalla parola: scientifica, filosofica, artistico-letteraria e chi più ne ha ne metta) non possiamo quindi predicare nulla intorno alla sedia; che essa ci sia in sé è poca cosa per noi, se su tale ambito fenomenico dovesse permanere il silenzio.

Certo, come nota poeticamente Sini, al limite delle parole il mondo accade. E: “L’evento delle parole manifesta l’evento del mondo, traducendolo in un significato, cioè in un definito, ma anche mai definitivo, saper fare, saper dire, saper scrivere: traduzione del mondo in una storia, nella nostra storia, nella sua oscura origine e nel suo incerto destino”. Al limite delle parole sta il mistero dei fenomeni, dell’esistenza. Illudersi di svelarlo, quasi esso fosse un semplice enigma, è hybris (tracotanza). Si tratta forse solo, alla fin fine, di viverlo.

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