Spiragli invisibili di tregua

A sentire i principali duellanti, nessun cessate il fuoco all’orizzonte. Le dichiarazioni ufficiali di Putin, Zelensky e Biden sono all’insegna degli ultimatum reciproci. Disponibilità a trattare, ma soltanto a condizioni irrealizzabili. L’ultima del presidente ucraino parla di una possibilità di tregua solo dopo il ritiro dei russi da ogni centimetro di territorio ucraino. Neanche la resa del Giappone dopo i bombardamenti atomici avvenne a queste condizioni. Per capire se nei due fronti contrapposti si stia aprendo qualche crepa, meglio andare oltre l’indefettibile propaganda di assalto e resistenza a oltranza.  E decifrare le contraddizioni che si stanno insinuando all’interno di ciascun schieramento.

A cominciare da quello ucraino. Impegnati a decifrare la mappa militare di successi e arretramenti, i media non hanno tempo e strumenti per capire quale sia la tenuta interna del paese. In tre mesi sarebbero fuggiti otre cinque milioni di abitanti, la distruzione delle infrastrutture sembra avere messo in ginocchio circolazione, energia e rifornimenti alimentari. Per non parlare della produzione industriale, decapitata del 50%. A questo collasso nazionale va aggiunta la difficile stima dell’amputazione territoriale dell’est russofono, e di gran parte del sud. Come viene letta, subita o accettata dal resto della popolazione? E negli equilibri del governo in carica quali risvolti bisogna aspettarsi? La scelta dell’inner circle di Zelensky di concentrare sullo sforzo bellico tutta l’attenzione mediatica è comprensibile, ma non modifica il peso e l’influenza del quadro geoeconomico. E non può certo nascondere il fatto che le chiavi di se e come l’Ucraina riuscirà a risollevarsi dalle drammatiche condizioni attuali sono in gran parte nelle cancellerie europee.

E qui le crepe sono già più visibili. Le più importanti le ha illustrate Prodi ieri su questo giornale. Mentre regge la facciata dell’unità degli intenti politici, la coesione delle scelte economiche si è già sfaldata. A cominciare dalla partita energetica, la più cruciale e strategica: «Germania e Italia dipendono dai metanodotti e soprattutto dalla Russia, la Francia conta e punta sempre più sul nucleare, e la Spagna viene alimentata dalle forniture di lungo periodo di gas liquefatto». Il risultato è che sulle sanzioni viaggiamo, e sempre più viaggeremo, in ordine sparso. Per non parlare del repentino naufragio di quella politica ambientale su cui appena un anno fa sembrava che finalmente l’UE stesse puntando. Non è difficile prevedere che queste contraddizioni economiche presto si riverseranno sui fragili equilibri politici, come già si avverte nei governi più ballerini come quello italiano. A quel punto, è molto probabile che l’Europa – più o meno all’unisono – comincerà a mettere i paletti all’appoggio incondizionato dato fin qui alla resistenza ucraina. Se oltre al conto degli armamenti andrà pagato – e in fretta – anche quello ben più ingente della ricostruzione, forse conviene provare a metter fine quanto prima alla devastazione in corso. Non è improbabile che in questa direzione già si stia muovendo qualcuno.

Qualcuno si sta muovendo anche in America. Con l’autorevolezza della firma del suo Editorial Board, il New York Times ha chiesto a Biden una posizione più chiara sull’impegno degli Usa nella guerra. Finora il presidente ha oscillato tra «dichiarazioni bellicose», spingendosi a perorare l’estromissione di Putin dal potere, e la consapevolezza che l’impegno del governo – sia finanziario che militare – non rientra tra le priorità dei suoi concittadini, ben più preoccupati della crisi economica globale in cui il conflitto ci sta precipitando. Questa ambiguità rischia di essere fuorviante per il destino dell’Ucraina. Oggi è doveroso che «Biden chiarisca a Zelensky e al suo popolo che c’è un limite su quanto lontano gli Usa e la Nato possano spingersi nello scontro con la Russia. (…) E’ fondamentale che le decisioni del governo ucraino siano basate su una stima realistica dei mezzi a sua disposizione e di quanta distruzione ancora l’Ucraina è in grado di sostenere». Sapremo nelle prossime settimane se questa iniziativa del giornale americano più prestigioso è l’indizio di un cambio di passo che sta maturando in circoli influenti dell’amministrazione Usa. Destinato a restare ancora a lungo dietro le quinte, ma aprendo i primi invisibili spiragli verso la tregua.

di Mauro Calise.

(“Il mattino”, 23 maggio 2022)

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