Strategie anti Putin

Da non esperto di geopolitica ma da cittadino preoccupato delle recenti svolte nel conflitto russo-ucraino, e più ancora dai vecchi e nuovi conflitti geopolitici che promettono nulla di buono, vorrei fare alcune considerazioni. Le quali sono ulteriormente stimolate dall’intervento tanto toccante quanto incisivo di Yulia Navalnaya al Parlamento europeo, il 28 febbraio scorso nel corso della commemorazione del marito Aleksej Navalny

  1. Il discorso della Navalnaya torna a porci di fronte a una serie di alternative sul modo con cui opporci, da liberal- o social-democratici occidentali, alla Russia di Putin. La vedova del dissidente Aleksej insiste comprensibilmente sull’opposizione interna a un regime, marcio di corruzione prima ancora che dittatoriale, dove Putin sarebbe testualmente “il leader di una banda di criminali”, che usano il potere politico a fini altresì di arricchimento personale. Donde l’innovativa proposta, della quale sottolinea il carattere “creativo” di contro alla “noiosità” di misure occidentali tanto conclamate quanto inefficaci: combattere Putin con i metodi con cui si combatte un’organizzazione mafiosa, le sue diramazioni internazionali e coperture in apparenza legali (in Italia, aggiungo io, ne sappiamo qualcosa). Dunque occorrono investigazioni con agenti – segreti e non, interni ed esterni alla Russia – sui crimini di Putin e dei suoi fiancheggiatori ovunque siano, in modo che si possa inequivocabilmente smascherare il volto criminale del putinismo e far così deflagrare prima o poi la rivolta del popolo russo, incoraggiando anche dall’estero i milioni di oppositori al regime. E’ un’opposizione che dovrebbe dunque lavorare a tutto campo, dall’interno come dall’esterno della Russia, cui l’Occidente sarebbe chiamato, anche perché la via diplomatica e delle sanzioni economico-finanziarie si è rivelata sostanzialmente inefficace. (Cosa su cui oggi non si può non convenire).
  2. A riguardo di ciò che a noi europei occidentali sta più a cuore, cioè il conflitto russo-ucraino, dal discorso della Navalnaya discende logicamente l’indicazione dell’abbattimento del regime di Putin come soluzione definitiva del conflitto, da conseguirsi in primis attraverso la denuncia politica e morale che smascheri fino in fondo il volto criminale del regime. Il medesimo obiettivo finale, cioè la caduta di Putin e dei suoi sodali quale condizione per una pace duratura, sembra quello perseguito in ultima istanza dalle correnti più militariste occidentali (con in testa il capo della Nato Stoltenberg) e più russofobe (conservatori inglesi, Polonia e Paesi baltici, oltre ovviamente l’Ucraina di Zelensky), da conseguirsi in primis attraverso la sconfitta militare russa in Ucraina (dando per scontato che la sconfitta militare sia prodromo di un cambio di regime, il che è condivisibile alla luce della storia russa del Novecento, ma lasciando impregiudicato cosa potrà succedere dopo). Del resto si osserva in questi ambienti, e implicitamente nella Navalnaya, che un eventuale compromesso con Putin per congelare il conflitto con l’Ucraina non farebbe che consentirgli una tregua utile a prepararsi a nuove guerre con l’obiettivo finale di ricostruire una Russia sulle dimensioni della ex Unione Sovietica. Come dire che il bellicoso espansionismo nazionalista e revanscista, condito (opportunisticamente?) con l’ideologia politico-religiosa panslavista, sarebbe l’inevitabile logica interna alla dittatura putiniana. Ma vi è in questa posizione una contraddizione: se da una parte si reputa possibile una sconfitta militare russa in Ucraina, supponendo una Russia debole e in fondo isolata, come si può sostenere dall’altra parte che la stessa Russia si senta tanto forte da pensare seriamente di attaccare – con speranze ovviamente di successo – i Paesi Nato, come pure affermano ambienti tedeschi?

Insomma, sono suggerite due strategie diverse, quella del militarismo occidentale, più o meno russofobo, e quella navalnayana dello smascheramento della mafiosità criminale del regime, e tuttavia identica è la condizione per risolvere definitivamente la questione ucraina: il crollo del regime putiniano per via militare e/o per via di rovesciamento interno. Ovviamente le due strategie possono correre sinergiche.

  1. Va da sé che ogni sincero liberal- o social-democratico occidentale auspichi la fine prima o poi del regime putiniano e che si senta vicino alla Navalnaya: vorrei che il punto risultasse ben fermo anche nel prosieguo. Ma la domanda che si pone è se la caduta del regime sia una prospettiva realistica nel breve-medio periodo, cioè entro due o tre anni. Infatti oltre questo lasso di tempo dubito possa resistere un’effettiva solidarietà economico-militare verso l’Ucraina, che nei governi dell’Occidente si va affievolendo – Usa in testa, tanto peggio con un Trump che andasse al potere, mentre l’Europa occidentale si distingue più nei proclami che non nei concreti aiuti economico-militari sotto la crescente stanchezza delle opinioni pubbliche (banco di prova saranno anche le prossime elezioni europee). Dall’altra parte, poi, è dato vedere una Russia resiliente sul piano economico-finanziario più di quanto ci si aspettasse, e inoltre capace sul piano militare di ricuperare terreno dopo gli iniziali rovesci, anche grazie alle immense risorse materiali che ha alle spalle e alla pazienza tradizionale del popolo russo, saldata con la sapiente disinformazia del regime. (La parte ostile a Putin si conterà a milioni, come vuole la Navalnaya, ma purtroppo è pur sempre una minoranza rispetto ai 140 milioni di Russi e a un patriottismo che, come si mostrò già con Stalin, è un cemento che appare più forte dell’ostilità al regime del momento, tanto più se dei paesi Nato attaccassero direttamente la Russia).

Inoltre – se è lecito fantasticare un poco sul futuro a venire – molte sono le incognite di un crollo del regime russo a seguito di una sconfitta militare o di un colpo di stato interno, ma in mancanza di una evoluzione “culturale” del grosso della popolazione russa. Vale a dire – pur evitando che il crollo significhi una disgregazione dell’unità stessa della Russia per le inquietanti conseguenze che deriverebbero da una “balcanizzazione” della Federazione in presenza di armi atomiche – non è detto che a Putin succeda un regime liberal-socialdemocratico di tipo occidentale (la stessa ideologia almeno del primo Navalny sembra escluderlo). E’ verosimile infatti che un tal regime sarebbe sentito dall’orgoglio nazionale del grosso della popolazione russa e dalla influente Chiesa ortodossa russa come un cedimento all’Occidente e alle sue moralmente decadenti società. (Del resto, seppur con il concorso di rilevanti errori, l’esperimento filo-occidentale di Eltsin a fine Novecento si risolse in un fiasco, aprendo la strada a un Putin e a un liberismo capitalistico senza freni, risoltosi nella creazione di un’oligarchia parassitaria di super ricchi).

Ma soprattutto, sempre a proposito delle incognite, anche caduto Putin una serie di temi di lungo corso resterebbero in campo per i futuri governanti russi, a partire da una Nato alle porte, insediatasi in Paesi ex comunisti e ex sovietici a dir poco rancorosi verso i “padroni” russi di un passato non lontano, e purtroppo portati a emarginare, se non a reprimere, le minoranze russofone e russofile presenti nei loro territori. Sono nodi questi ultimi che rimarrebbero di per sé irrisolti anche se avvenisse una sconfitta russa in Ucraina, e comunque sempre pronti a ripresentarsi (a meno di politiche tanto generose quanto intelligenti dei Paesi che ospitano quelle minoranze, cosa peraltro che non sembra essersi verificata in Ucraina).

  1. Quali bilanci trarre da tutto ciò, considerati i pro e i contro, in ordine all’auspicata fine della guerra russo-ucraina? Quale strategia adottare e prima ancora per quale realistico obiettivo finale lavorare? Il crollo comunque e senz’altro del regime putiniano come condizione indispensabile? E più in generale, un definitivo, umiliante ridimensionamento geopolitico della Russia, come infelicemente si era espresso il presidente USA Obama: “Russia potenza meramente regionale”? Suscitando così il forte risentimento di un orgoglio, nazionale prima che nazionalistico, offeso, su cui poi tanto Putin ha fatto leva in senso nostalgico-revanscista (anche la psicologia dei popoli ha un suo peso!).

Se le sanzioni non stanno dando gli effetti sperati; se, come pensano molti e io stesso, improbabile è una sconfitta militare russa con la perdita dei territori ucraini occupati dal 2014 ad oggi; se anzi si sta profilando una sconfitta ucraina con la conseguente proposta di interventi di corpi militari di paesi Nato che avrebbe come contraccolpo un’ulteriore escalation e compattazione interna russa, ebbene è inverosimile che la guerra ucraina possa risolversi con un prossimo crollo del regime putiniano. Piuttosto, se non vogliamo che la carneficina si estenda con ulteriori interventi militari e un allargamento del conflitto; se non vogliamo che prenda piede da tutte le parti una sconsiderata politica di rimilitarizzazione e di riconversione a un’economia di guerra giustificata dalle reciproche paranoie (l’Occidente vuole distruggere la Russia, dice Putin, no è la Russia che vuol far guerra all’intero Occidente, dice il militarismo russofobo nostrano), ebbene andrebbe posta la questione ucraina in un quadro di trattative di più ampio raggio, ispirato alla realpolitik, alla Kissinger insomma, cioè in un quadro complessivo di garanzie reciproche contrattate tra Russia e paesi Nato (i quali purtroppo non possono scegliere il regime dell’interlocutore!). E’ un quadro che prevederebbe come in una sorta di nuova Yalta una spartizione di influenze sulla linea grosso modo che va dal Baltico al mar Nero creando una zona cuscinetto da entrambi i lati, che obblighi cioè ad arretrare, rispetto alle linee di confine attuali, gli insediamenti militari Nato da una parte (il che non vuol dire disdire le alleanze Nato) e simmetricamente le forze militari russe-bielorusse dall’altra parte, il tutto nella speranza futura di una progressiva demilitarizzazione e ripresa dei commerci. In siffatto quadro, nella fattispecie dell’Ucraina occorrerà una trattativa sulla cessione alla Russia dei territori a prevalenza russofona e già occupati dall’esercito russo, e ciò in cambio di un ingresso dell’Ucraina nella Nato a sua difesa e a salvaguardia dei patti. I doverosi aiuti economici e militari all’Ucraina di oggi sarebbero nel quadro di un chiaro obiettivo, cioè l’evitamento del crollo dell’Ucraina, come premessa di trattative bilanciate. Che l’Ucraina si segga al tavolo delle trattative – con le buone o con le cattive – dipende solo dall’Occidente; che la Russia da parte sua ci stia, è probabile a mio avviso, perché sembrerebbe che il primo obiettivo di Putin sia un riconoscimento internazionale delle conquiste dal 2014 in poi, e comunque la diplomazia occidentale avrebbe da sondare il terreno (se quella segreta non lo sta già facendo).

5. L’obiezione che farebbero subito militaristi e russofobi alla strategia di un accordo di compromesso di ampio respiro – che credo l’Europa dovrebbe proporre prima di sviluppi catastrofici – naturalmente è l’inaffidabilità di Putin. Il quale tornerebbe prima o poi alla guerra contro i Paesi occidentali confinanti, anzi vi si starebbe già preparando (un conto però sono i piani che i militari sempre fanno sulla carta per prepararsi a ogni eventualità, ed è il loro mestiere, altro conto è la volontà politica). Ma, a risposta, è da chiedersi ancora una volta: è verosimile che Putin – dopo l’esperienza in Ucraina, comunque fortemente deludente sul piano militare e politico rispetto alle aspettative e dati inoltre i rilevanti costi umani ed economico-sociali che la Russia sta sopportando – voglia provarci anche con Paesi baltici e Polonia, avendo inoltre ai confini una Nato ulteriormente allargata a Ucraina e Finlandia?

Dunque non vedrei altra strategia percorribile e atta a evitare disastri imprevedibili che quella di trattative ad ampio raggio in un quadro di garanzie reciproche, di cui la questione ucraina è parte certo importante. I giochi grossi sono tra Mosca e Washington, vero: ma è possibile che l’Europa non possa farsi portatrice di quest’altra strategia, anche prima che, ahinoi, un eventuale Trump al potere negli USA non se ne faccia interprete (ma chissà a quali condizioni)? Ci fu una lunga, sanguinosa e complessa guerra, quella di Crimea del 1853-56, che vide una Russia zarista che già allora voleva espandersi a sud per un sicuro accesso al mar Nero e da qui al Mediterraneo; ad essa si opposero, oltre alla Turchia, le potenze occidentali di allora, Francia e Inghilterra, cui si unì pure il Regno di Sardegna con Cavour: finì con le trattative al famoso congresso di Parigi del 1856, che affrontarono anche la questione balcanica, col risultato di mettere grosso modo pace per mezzo secolo nell’Europa orientale.

Mauro Fornaro

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