Il tramonto dei partiti

Le forze politiche hanno ormai ceduto il passo a oligarchie fondate sulla ricchezza (*)

 

Ce ne eravamo accorti e Luciano Canfora ce lo conferma. Anzi, va oltre, fa della trasformazione dei partiti, del loro annullamento di fatto, la “sigla” prevalente della modernità. Perchè, riecheggiando il miglior DiPietro, quello di fine anni Ottanta dello scorso secolo: “I partiti hanno distrutto la Repubblica, ne hanno minato alle fondamenta le regole e il naturale funzionamento”. Poi venne la stagione del “repulisti” dell’azzeramento dei partiti stessi di cui, ancora oggi, ci chiediamo quanto davvero abbia fatto bene al Paese. Di lì le “stelle” , cinque…ma all’inizio anche una decina, che avrebbero dovuto governare il futuro di un intero Stato, forse dell’Europa, provando a “aprire i Parlamenti come  scatolette di tonno”. Ve lo ricordate?…. Ora siamo qui a raccogliere i cocci e a vedere se, in qualche modo, è possibile trovare equilibrio, serietà nelle Istituzioni e, soprattutto, la possibilità di dare veramente opportunità di espressione, parola, scelte, in piena libertà a tutte le cittadine e a tutti i cittadini . Una democrazia vera, magari “delegata”, non necessariamente “diretta”, ma effettiva…non la ricostituzione di conventicole che, per i motivi più vari, riescono a tutelare i loro interessi …prima, e – poi – forse anche quelli degli altri. S ono di fatto “oligarchie” non solo per ricchezza ma, soprattutto, perchè arrivano prima alle informazioni che contano. Arrivano prima a mettere i loro rappresentanti (le loro pedine, operazione fondamentale dell’insieme) nei posti che contano. Col tempo si documenteranno e si mostreranno autorevoli…”intanto piazziamo i nostri” e che gli altri si sveglino. …La cosiddetta “nuova Politica”….  

Durissimo e ironico Canfora … e a lui lasciamo la parola (n.d.r.)

«Obbrobrio di tutti i partiti, tremate!». È il secondo verso della quarta strofe della Marsigliese. Il verso precedente recita: «Tremate, tiranni!», cui segue appunto la drastica condanna dei «partiti» in quanto potenziale fonte di «obbrobrio». L’invettiva è interessante, ancor più se si considera che prima della Rivoluzione non vi erano «partiti», e che essi erano sorti, proprio come effetto e come vettori della Rivoluzione. È noto del resto che a Saint-Just risale la formulazione più netta in materia: una è la virtù e dunque «le fazioni» — che frantumano la Repubblica — sono un fattore di corruzioni (Frammenti sulle istituzioni repubblicane). Significativa sintonia con lo Staatslexikon fondato dal giurista liberale Karl von Rotteck nel cui Supplemento IV (Francoforte 1848), alla voce Partiti si legge: «Di fatto ogni partito può governare, ma in linea di diritto solo il partito democratico».

Tra 1789, 1793, impero, monarchia costituzionale, 1830 e 1848 la Francia, e, sotto il suo impulso, larga parte dell’Europa, vedono sorgere formazioni che, molto semplificando, possono ricondursi alla categoria dei «partiti». Momento aurorale fu il decennio che va dalla presa della Bastiglia al colpo di Stato del 18 Brumaio con cui Napoleone Bonaparte assunse un potere personale (fondato sul suo prestigio militare), che cancellava i «partiti».

Le sections parigine non erano un «partito» e tanto meno la maggioranza aritmetica del «popolo» (nemmeno del «popolo di Parigi», anche se in nome di esso agivano). Erano una minoranza, politicamente attiva, che «vigilava» in difesa della Rivoluzione contro le «fazioni» parlamentari sospettate di «tradire la Rivoluzione».

Nella Convenzione, tra i deputati la maggioranza numerica (difficile da calcolare con precisione) era costituita dalla cosiddetta «Palude»: massa di eletti intermedia e oscillante, in grado di far prevalere ora l’uno ora l’altro gruppo. La «mente» di tali gruppi — che assomigliano con qualche sforzo ai «partiti» — era nei club, si raccoglieva per lo più intorno a un giornale: «L’ami du peuple» di Marat era quasi un «partito personale». Tutto ciò verrà meno con Bonaparte, soprattutto con l’impero (1804). L’imperatore, capo militare carismatico, potrà contare sul consenso derivante dal rapporto suo diretto con l’armata, con la «vecchia guardia» eccetera, e intanto si legittimerà con le classi proprietarie inventando un «nobiltà dell’impero» e concedendo gratificazioni varie a fronte del controllo sulla stampa e sulla polizia politica. Solo nei «Cento giorni» il bonapartismo assumerà l’effimera maschera dell’Atto Costituzionale, redatto dal futuro «nume» liberale Benjamin Constant.

Le formazioni «liberali» che vivacizzeranno le Camere elette a suffragio più o meno ristretto fino alla Rivoluzione del febbraio 1848, rassomigliano — in quanto gruppi di pressione piuttosto che veri e propri partiti — ai Club del 1791-1793. E avranno lunga vita nell’Europa «liberale» ben oltre i confini della Francia.

Quando, nello stesso febbraio del 1848, esce a Londra (pressoché inosservato) il Manifesto di un gruppo politico che si denomina «partito» comunista (scritto da Karl Marx e da Friedrich Engels per conto della tedesca «Lega dei Giusti»), esso non ha alle spalle un partito, anche se reca la parola «partito» nel titolo. E perciò ha una natura singolare: dovrebbe riguardare una (ipotizzata da lontano) rivoluzione per l’ottenimento della democrazia in Germania, ma di Germania si occupa ben poco (qualche frase nel capitolo IV) mentre si rivolge, o immagina di rivolgersi, a una platea «mondiale» (vedi la frase finale, efficace e molto nota). In quei mesi però, e ancora per un tempo non breve (almeno fino alla Comune parigina del 1871) il «socialismo» più noto come tale è quello francese: cioè una pluralità di leghe operaie influenzate da agitatori-pensatori come Louis Blanc e più tardi Auguste Blanqui, molto influenzato dagli scritti letterariamente efficaci di Proudhon.

Un vero e proprio «partito», cioè un’organizzazione strutturata anche gerarchicamente, ordinata, e alla faticosa ricerca di un programma accettato dalle varie componenti, è il Partito operaio (poi socialdemocratico) tedesco fondato soprattutto per opera di Ferdinand Lassalle (1863). Lassalle morì giovane in un duello, ma la sua costruzione non fu affatto effimera e con fatica si unì alla componente ispirata da Marx e soprattutto da Engels. E quando, nel 1875 (Congresso di Gotha) il Partito socialdemocratico tedesco — modello, anzi archetipo, di tutti i movimenti e partiti socialisti del mondo — venne a esistenza, orientato alla realizzazione di un programma nettamente formulato e dai militanti accettato, fu presto (1879) messo fuori legge: da Bismarck, cancelliere del neonato impero tedesco, con lo strumento punitivo delle «leggi antisocialiste», rivelatesi però alla lunga controproducenti.

Era alfine nato un vero e proprio partito politico radicato nella realtà vastissima della classe operaia di un Paese in pieno, anzi travolgente, sviluppo industriale avente al centro appunto la grande fabbrica. Le leggi elettorali in varie guise fondate sul modello inglese del collegio uninominale facevano sì che la cospicua massa di elettori operai del Partito socialdemocratico portasse in Parlamento soltanto un esiguo manipolo di eletti. Le cerchie, o consorterie, «liberali» o conservatrici, o nazionalistiche — variamente tra loro collegate e quasi sempre perciò in grado di battere il candidato socialdemocratico — ottenevano comunque la maggioranza parlamentare. Valido aiuto al loro durevole predominio venne — con l’estendersi del suffragio — dalla nascita, in Germania e in Austria, più tardi in Italia, di partiti confessionali-centristi con largo seguito tra le masse rurali. Il dissidio tra questi partiti e le socialdemocrazie dava un vantaggio non da poco alla conservazione degli equilibri e dell’assetto sociale, pur criticato da entrambi.

Quelli furono a lungo i soli veri partiti, nel mondo europeo. L’America, sia del Nord che del Sud, aveva avuto e serbò tutt’altra tradizione, né si può dire che gli archetipi europei siano mai stati sic et simpliciter «esportati» oltre Atlantico.

Non è possibile seguire qui, partitamente, questa storia, che nel Novecento ha visto traumi, accelerazioni, crisi irreversibili. Quella storia è finita. Una diagnosi si può tentare col rischio della schematicità. Due fenomeni convergenti hanno archiviato la forma-partito: per un verso il contrarsi e parcellizzarsi della classe sociale che del «partito» era stata la matrice, per l’altro la riaffermazione esplicita delle oligarchie, anche se rese meno urtanti dal ricorso a procedure elettorali peraltro sempre meno credute o apprezzate e comunque saldamente ancorate alla ricchezza. Oligarchie forse competenti, certo attrezzate e duttili nelle forme ma fermissime nella sostanza. Dall’Unione Europea alla Cina «popolare», dagli Stati Uniti ai Paesi «emergenti» il predominio delle oligarchie è fenomeno consolidato.

Chi cerca conforto nel risalire col pensiero agli albori della storia politica conosciuta, potrà constatare che — al di là delle forme — oligarchie capaci e dinamiche guidarono sia la cosiddetta «democrazia ateniese» sia l’aristocratica res publica populi Romani.

(*)  autore : Luciano Canfora.

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