Un tram chiamato Mario Draghi

C’è una clausola di salvaguardia nel modo – diciamo così, confusionario – in cui l’Italia sta affrontando la crisi. Si chiama Mario Draghi. Evocata per lo più a mezza voce, ma con l’aria di chi la sa lunga, da – quasi – tutte le forze in parlamento. E descritta come l’asso di riserva, da calare sul piatto in autunno, nel caso le cose – come molti ormai prevedono – prendessero una brutta piega. E il conto sociale post-Covid si rivelasse incontrollabile per un governo che appare accentuare i segnali di una implosione interna. Questa clausola avrebbe forse una sua plausibilità economica. Ma è molto incerta quella politica.

Il primo convitato di pietra è l’ex-governatore in persona. Alla domanda più ovvia – perché mai dovrebbe mettersi in una simile impresa – ci sono i buonisti che rispondono: per il bene supremo della patria. Come se questo bastasse a fare avverare ogni desiderio, o auspicio. E Draghi, che sa bene quanti coltelli celerebbero proprio gli inviti più calorosi, avrebbe mille ottime ragioni per non rischiare la sua reputazione. I più cinici, a questo punto, ribattono che il purgatorio di Palazzo Chigi, per quanto insidioso e faticoso, aprirebbe comunque un’autostrada per ascendere dritto al Quirinale. Un settennato sul colle più alto val bene il sacrificio di un paio d’anni di montagne russe. E, a supporto, citano Mario Monti, che sciupò questa ghiottissima occasione decidendo di scendere in campo con un proprio partito personale, invece di starsene tranquillo aspettando che Camera e Senato ripagassero i suoi servigi votandolo octroyée al primo scrutinio.

Già. Ma davvero Mario Monti – tecnocrate di grande esperienza – commise quel suicidio politico per un attacco repentino di hybris? O forse cominciò a farsi qualche calcolo su chi davvero lo avrebbe appoggiato nel nuovo parlamento che stava per uscire dalle urne? In Italia, si sa, l’elezione del Presidente della Repubblica è una cabala in cui si impallinano anche i candidati inaffondabili (Ricordate i 101 di Prodi?). Figuriamoci un supertecnico che potrebbe contare solo sul bene – in politica – più raro, la gratitudine e la riconoscenza.

Nel caso si riuscisse in qualche modo – imperscrutabile – a superare le resistenze personali di Draghi, e si riuscisse – miracolosamente – a mettere insieme in parlamento una nuova e più ampia maggioranza capace di votarlo come Premier, davvero sarebbe lecito aspettarsi che si trasformi in salvatore della Patria? Facciamo pure finta di pensare che i partiti fossero disposti ad appoggiarlo – non ridete! – lealmente, magari perché atterriti dal baratro del combinato disposto dei disordini sociali crescenti e dei conti in rosso galoppanti, quali armi avrebbe Draghi per rimettere in carreggiata il tram Italia prima che deragliasse del tutto?

È qui l’ostacolo insormontabile che nessun deus ex machina sarebbe in grado di superare. Si chiama burocrazia. Lo sappiamo, ormai, da decenni che il male – per niente – oscuro che divora il nostro paese è la sua inefficienza burocratica. La disastrosa incapacità di affrontare ogni intervento che richieda un minimo di assunzione di responsabilità. Come si è visto, drammaticamente, anche nella risposta a mani nude – ma con tutte le carte in regola – al dilagare del virus. Dagli approvvigionamenti fantomatici di mascherine, tamponi, test, tutti arrivati fuori tempo massimo, ai provvedimenti di sostegni finanziari di ogni tipo ma rigorosamente in bianco, salvo compilare una ventina di moduli ed aspettare una ventina di settimane. Per non parlare dei comitati di esperti, tanto pletorici e iperpresenzialisti quanto litigiosi e inconcludenti. L’opposto degli gnomi invisibili e plenipotenziari con cui un leader della statura di Draghi ha potuto – per sua e nostra fortuna – operare alla guida della BCE.

No. Un tram chiamato Mario Draghi resterà, con tutta probabilità, un desiderio. Tanto legittimo, quanto irrealizzabile. Lo sanno bene i partiti, che continueranno nondimeno ad agitarlo come spauracchio per indebolire Conte. E lo sa bene il premier in carica, che intanto – tra rinvii e tribolazioni – si sta gestendo la finanziaria più corposa della storia repubblicana. Servirà anche da salvacondotto per quella che dovrà affrontare in autunno. Sempre che non gli venga voglia di dare lui il benservito ai partiti.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 11 maggio 2020).

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