Università in Alessandria: un lungo cammino

Ho sempre creduto – molto prima che nascesse – che la realizzazione dell’Università in Alessandria fosse un obiettivo da perseguire. Nel 1970 ero vicesegretario provinciale del PSIUP alessandrino. Fui incaricato di scrivere e presentare all’assemblea dei nostri iscritti la bozza del nostro programma alle Amministrative. Inserii tra i punti qualificanti quell’obiettivo. Ma fui ripreso dal mio amico, nostro deputato, Giorgio Canestri, che aveva 35 anni, mentre io ne avevo 29. Egli disse che non era detto che fosse bene che l’Università fosse fatta qui perché la scelta avrebbe dovuto essere compiuta in sede di programmazione nazionale, senza rivendicazioni “localistiche”. Tenni il punto. Dopo due anni lo PSIUP si sciolse, in seguito a due gravi disfatte elettorali, e io ed altri amici confluimmo nel PCI. Divenni responsabile della Commissione Scuola e Cultura della Federazione del PCI e, sin dalla fine del 1973, membro della segreteria provinciale. Riproposi subito l’obiettivo dell’Università in Alessandria con grande forza (come si può vedere ampiamente sul “Piccolo” del 13 aprile 1974 e su “La svolta” del 7 novembre 1974, eccetera). Per allora l’obiettivo era inserito in un’ottica di pura programmazione nazionale., ma con una fortissima accentuazione sui diritti e l’idoneità di Alessandria per una tale realizzazione

In tale quadro il 24 giugno 1975 organizzai un convegno alla Casa della Cultura tra Istituto Gramsci piemontese e di Alessandria, cui parteciparono, oltre al sottoscritto: l’assessore regionale alla Programmazione, Luigi Rivalta; l’assessore all’Urbanistica, Claudio Simonelli; l’allora direttore del Gramsci di Torino, Gianni Alasia; il senatore Piovano di Pavia, della Commissione Istruzione. Raccolsi pure gli atti, poi rimasti inediti. Pubblicammo pure un impegnativo documento, firmato dai relatori, ma anche dal democristiano Luciano Vandone, sul “Piccolo”.

Sull’onda di tali incontri riuscimmo a far pronunciare la Regione Piemonte, al termine della Legislatura (le Regioni erano nate nel 1970). Si sapeva che il parere delle Regioni avrebbe avuto un gran peso, per legge, in materia di scelta delle nuove Università. Prima che si sciogliesse quella legislatura, il Consiglio Regionale votò infatti un ordine del giorno, concordato con noi, il quale diceva che il Piemonte abbisognava di due nuove Università, con Facoltà differenziate tra le due sedi: una nel Piemonte Sud (in Alessandria) e una nel Piemonte Nord (a Novara).

Nel frattempo Novara si era attrezzata da anni per porsi in lista d’attesa molto quotata come secondo Ateneo piemontese ottenendo spezzoni di corsi di laurea mutuati dalla Facoltà di Medicina di Pavia e da quella di Ingegneria (e, oltre a tutto, aveva come attivo nume tutelare novarese il potentissimo ministro, poi Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro). Ad Alessandria non si poteva fare “come a Novara” per il fuoco di fila contro la “disseminazione” dei corsi universitari, i famigerati “spezzoni”, considerati alto tradimento della “programmazione razionale e nazionale” dalla cultura di sinistra della nostra città e, per consenso automatico, da un ceto politico che aveva delegato agli “intellettuali” la capacità di pensare in ambito teatrale universitario e culturale. Tragedia di una città in cui i politici sono quasi sempre “praticoni” pretesi “furbi” e gli intellettuali sono spesso stati letterati poveri di senso politico pragmatico.

Io nel decennio 1975/1985 fui assessore alla cultura e poi capogruppo consiliare del PCI (che contava allora 19 consiglieri su 50). In quella fase avevo maturato due convinzioni forti, la prima delle quali era diversa da quelle degli intellettuali miei concittadini. Innanzitutto, prendendo a occuparmi seriamente della cosa, constatavo che – piacesse o meno – dal 1861 non c’era mai stata nessuna Università che non fosse sorta legalizzando e ampliando realtà universitarie preesistenti (al nostro tempo dette sprezzantemente, dai miei amici, “spezzoni”). In secondo luogo constatavo amaramente che Alessandria stava palesemente decadendo economicamente e che una politica di insediamento di servizi culturali qualificati da un lato avrebbe potuto a poco a poco far crescere culturalmente la città, e dall’altro avrebbe avuto un forte valore anticiclico, cioè di reazione al blocco avvenuto nello sviluppo di questa città, un tempo così importante “in tutto” (più o meno sino al 1960, con sprazzi sino al 1970). Mi chiedevo se tra la politica da “praticoni” e “clientelare” pronta a prendere tutto quel che potesse arrivare in ogni campo (in quell’ambito ogni spezzone anche di pochi corsi) e quella palesemente astratta di chi aspettava “Godot”, cioè scelte fatte senza alcun condizionamento locale dal Parlamento o/e Governo, per motivi puramente “razionali”, non ci fosse una terza strada, pragmatica in modo alto, razionale e progressivo. Al proposito a me pareva che se ad essere decentrati fossero stati interi corsi di laurea o Facoltà non si sarebbe potuto parlare di “spezzoni”, purché venisse fatto in vista di una rapida fondazione “per legge” di un nuovo Ateneo. Feci a fondo, con altri – tra cui l’assessore e poi vicesindaco Andrea Foco, e poi l’assessore all’Istruzione Margherita Bassini, insieme all’assessore all’Urbanistica Ghe’ e a quello alla Cultura, Gianluca Veronesi – questa battaglia. Spesso dovetti fare una battaglia su più fronti. Si dovettero battere logiche localistiche rozze, come quelle di chi in mancanza dell’Università si sarebbe accontentato di un corso di Urbanistica, ancora neanche esistente a livello nazionale, puntando su un “pezzo grosso” della cultura in architettura, e del riformismo socialista (Astengo) Ma la maggior battaglia la si dovette ingaggiare con taluni intellettuali alessandrini di grido, che caricavano come tori furiosi chi voleva decentrare corsi di laurea, anche completi, dall’Università di Torino. Potei dare una mano diciamo non piccola per vincere tali resistenze solo perché ero capogruppo del primo partito in Consiglio comunale e perchè erano d’accordo con me figure chiave del comunismo alessandrino come il segretario di federazione (Enrico Morando) e assessori come quelli che ho citato.

Per parte sua il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca nella legge 590 del 1982, suo piano quadriennale, mise nero su bianco tre punti: 1) che nessun Ateneo avrebbe potuto avere più di cinquantamila iscritti; 2) che il Piemonte era la prima Regione in cui fosse urgente fare un nuovo Ateneo (Torino aveva 60.000 iscritti e strutture capaci per 20.000); 3) che nella scelta dei nuovi atenei si doveva partire da realtà universitarie parziali già presenti sul territorio.

Il terzo punto confermava addirittura con la forza della legge la necessità di far arrivare corsi universitari, che noi volemmo completi, se si voleva far giungere la nuova Università.

Quando Andrea Foco divenne assessore all’Istruzione (1980), fui incaricato, poco dopo, di indicare la rosa dei nomi di una Commissione del più alto profilo per dare gambe al progetto dell’Università anche in Alessandria. Come docente dell’Ateneo torinese qual ero, soprattutto sapendo che sui problemi di gestione e amministrazione nessuno era più capace di Gian Mario Bravo (allora Preside di Scienze Politiche), non potevo certo evitare la mia Facoltà (anche se io al momento della scelta definitiva, dopo i corsi decentrati, a differenza di altri preferii continuare a insegnare a Torino). Così addivenimmo all’idea di coinvolgere Borrello, per poco non eletto Rettore e allora vicerettore, e indiscusso e autorevole Preside della Facoltà di Scienze Fisiche Matematiche e Naturali dell’Università di Torino. Partecipò pure il compianto Franco Ferraresi, collega sociologo e allora prorettore. Evitai pure l’assurdo tentativo di separare i tecnici dai decisori politici, ottenendo che i capigruppo fossero invitati permanenti. Sventai tale tentativo, che avrebbe rotto il cordone ombelicale che univa i politici e il mondo universitario, con l’aiuto degli assessori Ghe’ e Veronesi. Addivenimmo così al progetto che – in attesa di rapida decisione sulle nuove Università – concordava con l’Ateneo di Torino la nascita qui di Scienze Politiche a indiririzzo amministrativo e di Scienze Matematiche Fisiche Naturali. A queste due Facoltà si aggiunse quasi subito una terza Facoltà torinese, Giurisprudenza. Non solo scrissi il documento votato dal Consiglio Comunale e Provinciale e lo illustrai nel Consiglio Comunale nel febbraio 1983 (fu pubblicato sul bollettino “Il Comune” il 2 novembre 1983), ma a Torino fui nominato, con Maurilio Guasco, nella Commissione Tecnica di Facoltà per gestire la cosa (22 ottobre 1985). Mi trovai a stendere la bozza dell’accordo e – in tal caso col professor Negro di Scienze – anche quella dell’atto amministrativo connesso: testi poi firmati di comune intesa dal Rettore dell’Università di Torino, professor Dianzani, dal Sindaco di Alessandria e dal Presidente della Provincia. Intanto qui si formava un Consorzio, o Comitato per l’Università in Alessandria (“in” e non “di”), brillantemente presieduto da Gianluca Veronesi.

In parallelo si muoveva, non certo a caso, la Regione Piemonte. La Regione nell’aprile 1984 votò un documento in cui invitava il Ministero competente “ad istituire una Università policentrica nel Piemonte Orientale, preso atto con favore delle proposte avanzate in materia dalle Province e dai Comuni di Alessandria, Novara e Vercelli”. La Regione auspicava una nuova Università “per poli omogenei nelle aree di Alessandria, Novara e Vercelli” (il testo si può leggere su “La Settimana”, di Alessandria, del 5 aprile 1984). L’impostazione di un’Università strutturalmente una e trina era originale in Italia, ed era stata pensata e proposta da noi, e accettata come buon compromesso da altre città capoluogo, perché sapevamo che Novara, che aveva molte più chances di Alessandria, sarebbe certamente diventata il secondo Ateneo piemontese, avendo ottenuto il decentramento di due importanti Facoltà da anni ed essendo l’area nel cuore del potente Scalfaro. Ma non si trattava solo di efficace tatticismo “pro Alessandria”, pure da non buttar via. Era anche il modo di impedire una cosa sbagliata tramite una cosa giusta, essendo Novara a mezz’ora da Milano. E solo incentrando il nuovo polo nel Piemonte Sud era possibile cominciare a bilanciare un modello di sviluppo tutto risolto nell’area di Torino. Inoltre lasciare la città più importante del Piemonte Sud al suo malinconico declino sarebbe stato criminale. Non credo che ad Alessandria si sia insediato nulla di più importante della nuova Università, da allora.

Prima di giungere al risultato c’erano e ci sarebbero stati diversi tentativi di far fallire tutto. Tralascio le grida di chi era contro l’accordo per ragioni di principio, cui ho accennato. Ci fu pure un progetto di “sistema universitario piemontese” elaborato dal grande sociologo Luciano Gallino, che voleva che ogni nuovo insediamento facesse sempre capo all’Ateneo di Torino. Lo contestai nell’Aula Magna stessa di Palazzo Nuovo, dicendo che il Ministero stesso aveva posto come prima esigenza in Italia quella del secondo Ateneo piemontese e che l’idea del seguitare a concentrare tutto lo sviluppo del Piemonte a Torino perpetuava uno squilibrio tra capoluogo regionale e province, che era invece da superare. Ancora in dirittura d’arrivo ci furono alcuni pericoli che dimostrarono che avevamo agito giustamente. Infatti Novara, comprendendo in extremis che era ormai in dirittura d’arrivo un progetto di Università a tre teste, provò a sganciarsi dall’accordo che avevamo avuto sin lì con essa, ma troppo tardi. Ci fu persino un tentativo della ministra Falcucci di legalizzare l’Ateneo novarese – da me documentato nell’articolo sul “Piccolo” del 14 febbraio 1987 Tutte le ragioni di una scelta su cui si continua a discutere – a prescindere da tutti gli orientamenti di cui si è detto. Ma l’iniziativa dei parlamentari piemontesi – taluni dei quali contattati – di chiedere tutti insieme, nessuno escluso, persino con progetto di legge firmato da “tutti” i deputati e senatori del Piemonte Sud dal PCI, PSI e DC al Movimento Sociale (3 luglio 1987), sventò la cosa. Ci fu pure una proposta del neoassessore regionale Alberton di dirottare “Scienze” da Alessandria a Novara. Fu assolutamente decisivo che l’accordo con l’Università di Torino fosse stato ormai formalizzato, come lo stesso preside di Scienze ricordò all’assessore regionale in questione.

Tutto questo accadeva tra il 1982 e il 1988 (con i prodromi dal 1972 ad allora di cui ho detto). Il processo fu poi compiuto, con nascita del nuovo Ateneo piemontese tripolare, con la legge del 1998, in cui ebbe un ruolo pure un deputato del PDS già segretario della Camera del Lavoro di Alessandria, Renzo Penna, che su ciò scrisse poi il libro Università, Cronaca di un’autonomia conquistata (Boccassi, 1998).

Dopo di allora molta acqua è passata sotto i ponti. E moltissimo resta da fare. Tuttavia le Facoltà fondamentali sono state quelle tre indicate, finché non sono state sostituite dalla struttura per dipartimenti e corsi di laurea oggi vigente in Italia. Nel 2018, nell’Università del Piemonte Orientale (UPO), gli studenti in Alessandria risultavano 3477, sui 12.974 dell’Ateneo. I laureati del nuovo Ateneo, dal 1998 ad allora, sono stati 28.000. Nella parte alessandrina dell’Ateneo, come ha dimostrato anni fa un interessante studio dell’economista Alberto Cassone, questi laureati sono risultati per lo più figli di persone non laureate: il che indica una significativa spinta alla mobilità sociale, tra l’altro in Facoltà che gli indicatori scientifici hanno posto tra le migliori del Paese. Inoltre il decentramento si è fatto sempre più intenso dentro la stessa Università tripolare, tanto che oggi i corsi di laurea operanti in Alessandria sono sempre più articolati, fotografando una realtà in continuo movimento ed espansione. Tenendo conto del fatto che l’ordinamento universitario da molti anni si svolge col criterio detto del “tre più due”, che vede una laurea detta “breve”, triennale, per laureati di primo livello, ed una “magistrale”, di secondo livello, più specialistica, il quadro reale – sempre prevalentemente incentrato sui tre vecchi tronconi – risulta il seguente.

I percorsi formativi presso il DIGSPES (Dipartimento Giuridico Sociale Politico e Storico) si articolano nel modo seguente: Giurisprudenza. Inoltre ci si può iscrivere a uno dei seguenti corsi di laurea: Scienze politiche, economiche, sociali e dell’amministrazione; Servizio sociale. Sono pure presenti: Economia aziendale (corso sdoppiato dal Dipartimento di Studi per l’Economia e l’Impresa) e Lettere (corso sdoppiato dal Dipartimento di Studi umanistici).

Al DIGSPES ci si può inoltre immatricolare nei seguenti corsi di laurea magistrale: Economia, management e istituzioni; Società e sviluppo locale. Al Dipartimento di Scienze e Innovazione Tecnologica ci si può immatricolare in uno dei seguenti corsi di studio magistrale: Laurea Magistrale in Biologia (in Alessandria con curriculum agro-ambientale e curriculum biomedico e biomolecolare); Laurea Magistrale in Informatica; Laurea Magistrale in Scienze chimiche.

Non sembrano risultati di poco conto. E se gli alessandrini si svegliassero dal “sonno dogmatico” dei politici, spesso capaci soprattutto di fare lamentazioni sulla “secchia rapita”, un tempo contro lo strapotere di “Torino” e ora contro “la fatal Novara”, e si decidessero a dare con un pizzico di ulteriore generosità nuovi spazi all’Università, e a sfruttare competenze d’altro livello persino nella selezione della propria classe politica e nella gestione di servizi, e ad aprire foresterie e mense per studenti e docenti, incoraggiando l’espansione in atto, nel giro di pochi anni potrebbe diventare attuale, e persino “naturale”, il passaggio dall’Università tripolare all’Università di Alessandria (e ovviamente a quella di Novara-Vercelli). Ma accadrà mai nell’area che Eco cinquantuno anni fa diceva connotata da “pochi clamori tra il Bormida e il Tanaro”, tanto più nella malinconica epoca politica dell’Italia d’oggi?

Comunque, accada o non accada, qualcosa di buono è già accaduto e viene accadendo, e non è certo male.

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