Vecchi scontri, nuovi fronti

Il diffondersi delle proteste anti-Israele in molti college d’elite americani e nelle piazze – sempre più numerose – di Europa rischia di incanalare il dibattito negli steccati che per ottant’anni hanno rinchiuso la tragica storia della questione palestinese. Come ricorda Scotto di Luzio ieri su queste colonne, un dibattito che suona fuori luogo davanti agli eccidi del blitz di Hamas in territorio israeliano.

Peggio, porre in questi termini il problema risulta anche fuorviante rispetto ai nuovi scenari con cui lo scontro tra Israele e palestinesi si presenta. In passato, pur tra alterne vicende, due postulati sono rimasti ben fermi: l’unità del fronte arabo da una parte, e l’unità dello stato israeliano dall’altra. Oggi, questa unità è venuta meno, e saranno le spaccature interne a determinare l’evoluzione del conflitto.

È ormai acclarato che l’obiettivo primario di Hamas era ed è quello di far saltare il tavolo degli «Accordi di Abramo», che – pur tra mille intoppi – stava mettendo le basi per un processo di pacificazione che coinvolgesse Israele e i principali stati arabi, includendo l’Alleanza nazionale palestinese. L’allargamento del tavolo all’Arabia Saudita, e al suo potente leader Mohammed bin Salman, rischiava di affossare le ambizioni insurrezioniste di Hamas. Contrariamente, però, alle aspettative dei capi di Gaza, fino ad oggi il clima prevalente non è quello che si era visto in occasioni simili in passato. Anzi, i principali protagonisti del tavolo di pacificazione non sembrano intenzionati a lasciare che Hamas comprometta la loro strategia che, facendo perno sulle capacità economiche e tecnologiche di Israele, disegna nuovi scenari di sviluppo per tutto il medioriente.

Resta, però, da vedere se la moderazione dei governi riuscirà a reggere l’urto delle proprie popolazioni.  Ed è qui che entra in gioco l’entità – e violenza – dell’attacco che Israele sta sferrando a Gaza. È fin troppo facile prevedere che in un sistema comunicativo globale dominato dalle istantanee via Instagram, le immagini degli eccidi di Hamas verranno presto sostituite da quelle dei bombardamenti israeliani. Nella macabra contabilità dei cadaveri, i palestinesi uccisi hanno già ampiamente superato le vittime del 6 Ottobre. Quando sugli schermi dei cellulari si moltiplicheranno i volti dei civili di Gaza morti sotto le macerie, quale sarà la reazione dei loro fratelli musulmani?

A questa incognita si aggiunge la profonda divisione della società israeliana nei confronti di un premier che molti connazionali considerano alla stregua di un dittatore fascista. Anche in questo suonano illusorie le analogie col passato. Non c’è più un paese che si compatta nell’ora del bisogno e della guerra. Anzi. L’opposizione a Netanyahu sta aumentando nelle manifestazioni di piazza, e ancor più nel sentimento di rabbia per ritrovarsi – per la prima volta – in una condizione di profonda insicurezza e incertezza sul proprio futuro. Rabbia che significa anche sfiducia nelle capacità di Netanyahu di risolvere manu militari la situazione che si è letteralmente fatto scoppiare tra le mani. Per capire la gravità della frattura, basta affacciarsi nelle corsie degli ospedali dove i rappresentanti del governo sono stati cacciati dai medici che inveivano contro la loro inettitudine.

A frenare le minacce di Israele di radere al suolo buona parte della striscia di Gaza, c’è, dunque, il timore che si possa riaccendere in tutto il medioriente l’odio di massa che, negli ultimi anni, sembrava almeno in parte sopito. E, forse, ancora più importante, la pressione interna di una popolazione israeliana che ha perso fiducia nella propria democrazia e leadership. Ma conviene a Netanyahu dare ascolto a questi segnali che imporrebbero lungimiranza e moderazione? E conviene all’Iran che è il principale istigatore e finanziatore della carneficina di Hamas? Le guerre sono sempre imprevedibili. Ma questa rischia di precipitare presto nel caos.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 16 ottobre 2023)

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