Cesare è morto: santificetur!

La morte di Cesare Romiti ha offerto a tutti i media nazionali l’occasione per dare prova di superficialità, di ignoranza e persino di stupidità: già perché si è sostanzialmente trattato di un esercizio di santificazione del “grande” imprenditore con ricostruzioni acritiche che non hanno neppure accennato al fatto che comunque si era trattato di figura alquanto controversa; così come nessuno ha ricordato che Romiti (con Debenedetti) è stato il grande delegittimatore della classe politica italiana con una lettera ai giudici di Mani Pulite che rovesciava il rapporto tra concussi e concussori e che, immediatamente amplificata dalla stampa nazionale, apriva la stagione populista e giustizialista con cui l’Italia deve ancora fare i conti. Basta però scorrere la voce “Romiti Cesare” su Wikipedia per capire che tra il manager di ferro e la santità ce ne correva e ce ne corre: e consiglierei, come approfondimento, la lettura dell’interessantissima lettera di precisazioni su “San Cesare R.” inviata da Fabrizio Cicchitto a “Il Tempo” del 21 scorso (facilmente reperibile su Google).

Al di là della forte antipatia istintiva che il personaggio ha sempre suscitato in me, fisicamente ancor prima che ideologicamente, non si può contestare che Romiti sia stato uno dei grandi “boiardi” del capitalismo pubblico e privato italiano estremamente spregiudicati (come Cefis e Schimberni e, ultimo sopravvissuto, Debenedetti) capaci di gestire soprattutto i propri interessi più che quelli delle aziende che dirigevano e che li pagavano: quei manager che hanno saputo “fottere” – non credo ci sia altra parola più adatta per esprimere la loro azione – il sistema del capitalismo pubblico e privato famigliare italiano con la complicità del mitico Cuccia garante degli “squilibri” più che degli equilibri ma infine lui tesso “trombato” alla grande proprio dai boiardi che aveva allevato, protetto e imposto nei “salotti buoni” dell’imprenditoria nazionale. Sono i padri dei furbetti tipo Colaninno e Tronchetti Provera, sono gli iniziatori di quel “liberismo finanziario selvaggio” impunito e ante litteram per certi aspetti, che è stato la precondizione indispensabile per la stagione delle privatizzazioni selvagge – Telecom è un esempio puramente casuale – che hanno depauperato non solo lo Stato italiano. Così come – e Romiti sicuramente più degli altri con la mitica marcia dei 40.000 di cui fu ispiratore e finanziatore – sono stati loro gli artefici (con il controllo di praticamente tutta la stampa nazionale) della delegittimazione dei sindacati e CGIL soprattutto: delegittimazione di cui tutti i lavoratori hanno poi fatto le spese grazie anche alle politiche del lavoro di una prima Repubblica al tramonto e soprattutto a quelle della seconda Repubblica. Non è stato certo il primo industriale italiano a far ricorso strumentalmente e in misura massiccia alla cassa integrazione: ma certamente Romiti l’ha trasformata in un finanziamento pubblico sistematico che andava ad aggiungersi agli altri benefit che la FIAT riceveva-pretendeva dallo Stato. L’epopea di Romiti – dice perfettamente Cicchitto – “è il segno che in Italia non c’è stato certamente l’esproprio proletario ad opera delle masse operaie guidate dalla CGIL e dal PCI, ma invece c’è stato l’esproprio bancario ad opera di Cuccia e di Mediobanca“ che impose Romiti a Gianni Agnelli.

La mitica era di Romiti alla FIAT. Nessuno sui media ha ricordato che l’uomo di Cuccia considerava finita l’era dell’automobile e che vedeva il futuro dell’azienda più diversificato e soprattutto molto più finanziario che manifatturiero: così come è stato dimenticato che la sua diversificazione se alla fine non ha prodotto utili particolarmente significativi, in compenso ha distrutto il settore auto dell’azienda torinese licenziando l’uomo di punta dell’automobile, Ghidella, ed eliminando anche tutto il settore ricerca e sviluppo. Dettaglio non proprio trascurabile, nessuno ha ricordato che andandosene dalla FIAT s’è portato via il tesoretto di Gemina pieno di partecipazioni industriali, finanziarie ed editoriali molto importanti. Al tempo correva voce che pur di liberarsene l’Avvocato avrebbe fatto qualunque sacrificio: Gemina, appunto, che poi sotto il clan Romiti privo della protezione di Cuccia e non proprio amato dai salotti buoni della finanza italiana e non solo, avrebbe praticamente perso tutti gli asset strategici più importanti (dal Corriere della Sera alle gestioni Aeroportuali, tanto per dirne un paio).

Tirando le somme, se c’è stato – per la FIAT – un responsabile dell’era Marchionne (nel bene e nel male), questo è sicuramente San Cesare R. e la sua scomparsa avrebbe potuto e, io credo, dovuto essere l’occasione per riesaminare con più attenzione l’eredità pesante lasciata all’Italia dall’azione di Romiti e del clan dei figliocci di Cuccia i cui effetti si sono continuati a sentire ben oltre il loro pensionamento o la loro scomparsa: E si sentono ancor oggi.

di Guido Ratti

1 Commento

  1. Al di là del tono, che trovo inutilmente livoroso, le affermazioni dell’autore descrivono correttamente il pesante contributo di Romiti alla “scomparsa dell’Italia industriale” (titolo di un libro del sociologo Gallino) nei settori di alto livello tecnologico quali aeronautica, elettronica/informatica, chimica e, parzialmente, automobilistica. Se il conflitto con Ghidella si fosse risolto a favore di quest’ultimo sarebbe stato un forte segnale di arresto del degrado industriale in atto già all’epoca con il prevalere della finanza speculativa su quella di sostegno all’economia reale. Ma le cose sono andate diversamente.

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