La sinistra e le primarie del PD

Elly Schlein ha vinto, contro molti pronostici, le primarie del PD del 26 febbraio. Aveva in opposizione un bel pezzo dell’apparato classico del Partito Democratico, pur se va detto con sincerità, che in tutte le liste collegate ai vari candidati ci sono stati posizionamenti non coerenti, veri e propri ‘intruppamenti’, che certo non favoriscono un dispiegarsi limpido della battaglia politica interna alla compagine democratica.

Non vi è dubbio, peraltro, che il Bonaccini, che ha vinto il congresso degli iscritti, sia stato il candidato della continuità interna, della linea strategica veltroniana e del ‘partito a vocazione maggioritaria che va oltre il Novecento’, mentre Elly Schlein era l’outsider, l’alternativa più spostata a sinistra, intransigente con le destre, portatrice di novità nella concezione dell’organizzazione e della linea politica. Si dirà adesso che la Schlein ha vinto grazie ad un meccanismo congressuale assurdo che consente ad una iscritta da poco al partito di ottenere il posto da segretaria nazionale, si sosterrà che con la neoeletta al vertice ha vinto il populismo e l’estremismo nella compagine piddina. In verità, non mi sembrano osservazioni né pertinenti né in grado di cogliere il grumo di questioni che la consultazione elettiva ha posto suo malgrado.

Il meccanismo originale delle primarie, per cui anche chi non vota per il PD può essere chiamato a deciderne l’elezione del segretario nazionale, non l’ha creato il comitato Schlein, erano regole esistenti fin dalla fondazione del partito, ritenute elementi di identità intoccabili dello stesso. Ora non si può dire che quelle regole non vanno più bene semplicemente perché hanno consentito la vittoria al candidato sgradito all’apparato. Per quanto riguarda il populismo della Schlein, si dovrebbe segnalare che di populismo e di personalismo è intrisa la cultura del Partito Democratico fin dagli inizi della sua navigazione politica. Il PD è nato sulla idea del ‘Sindaco d’Italia’, del leader solo al comando che saltando tutti i livelli intermedi, direttamente si rivolge non agli iscritti, ma all’elettorato stesso. Un concetto più populista della politica non si potrebbe concepire. Se poi, per populismo, si intende il fatto che il candidato Schlein ha sostenuto elementi di programma che sono urticanti per i benpensanti del sistema liberale, e solo per questo può essere tacciata di estremismo, non vi è che da osservare come le proposte della segretaria neoeletta non possono essere definite anti-sistema, ma semmai ella vuole riportare il partito del PD dentro l’alveo di una tradizione caratterizzata da una forte tensione sociale. Detto questo, non si può ravvisare nello schieramento che ha vinto una propensione settaria e estremista, semmai un rifiuto del moderatismo che va per la maggiore oggi, per cui basta dire che bisogna difendere i lavoratori e i loro salari per essere additati come pericolosi rivoluzionari. Dunque, che cosa è sostanzialmente accaduto nelle primarie di domenica? Certamente ha vinto una proposta politica che non è stata elaborata dall’apparato classico che ha sempre governato il PD, che ormai è composto solo da amministratori e eletti. L’apparato è stato scalzato da un movimento che si è originato dal basso e che Elly Schlein ha deciso di guidare, ma che può andare anche oltre alla candidatura della politica bolognese. Con l’andare degli anni il PD ha trascurato una esigenza di rappresentanza, ideale, politico e sociale che si è verificato a sinistra, e che oggi ha dato vita al sorprendente risultato del 26 febbraio che manda a dirigere le sorti della compagine democratica una dirigente politica estranea al corpo direttivo classico di quel partito. Il ‘fenomeno Schlein’ è tutto qui, se si vuole, nel riattivarsi di un popolo che riconoscendosi poco o punto in ciò che era diventato il PD, si riprende un protagonismo, e cerca di strutturare una rappresentanza stabile delle sue istanze. Le primarie del 26 febbraio segnalano probabilmente la fine del Partito Democratico come lo aveva disegnato il suo grande architetto Valter Veltroni, che ne strutturò le linee ideologiche di fondo nel famoso discorso del ‘Lingotto’ nel 2007. Se abbiamo analizzato il vuoto politico-elettorale poco sopra, anche a livello di confronto ideologico, lo dimostra il dibattito acceso sulla carta fondamentale del 2007, lo scontro sul progetto strategico indica la fine del PD veltroniano. Da un lato si sono caratterizzati coloro che richiedono di non modificare, se non in pochi particolari, il vecchio testo della carta dei valori che fu ispirata alle idee liberali e alla centralità del mercato. Dall’altra hanno risposto con nettezza altri, capitanati dalla professoressa Nadia Urbinati, che chiedevano un PD capace di farsi promotore di una critica della società attuale e di saper correggere le peggiori deformazioni e ingiustizie sociali che impediscono lo sviluppo pieno della libertà umana. Come si può evincere, ormai emergono dal confronto di ispirazioni attuali, due linee ideologiche e valoriali opposte e non conciliabili, che pongono visioni e punti di vista sulla realtà moderna che divergono su molte questioni dirimenti. In sostanza, Elly Schlein non è la causa di una rinascita della sinistra, ma semmai è la risultante di un processo politico che si è sviluppato fuori e dentro ad un partito che aveva perso il contatto con buona parte delle fasce popolari che costituivano parti consistenti e storiche del proprio elettorato.  Credo che ciò che sta avvenendo in questi giorni, gli abbandoni di molti centristi del PD per approdare ad altri lidi, siano dovuti al continuo indebolimento elettorale della area democratica, alle continue sconfitte, più che alla vittoria nelle primarie della Schlein, che semmai accelera determinati effetto politici, ma di per sé non li ha creati. Certamente, la neo segretaria resterà a capo di questo movimento di sinistra solo se comprenderà che non basta spostare un po’ a sinistra questo PD, ma vi è, invece, l’esigenza di rifondare un progetto politico e organizzativo di rappresentanza dei ceti popolari e del lavoro. Per contro, il centro, le aree moderate e cattoliche, stanno riprendendo la loro autonomia politica e culturale, e ponendo questa questione, ovvero la ricostruzione di una rappresentanza moderata che si interpone fra sinistra e destra. Per primi Renzi e Calenda hanno iniziato a riorganizzare il centro, e altri ora si stanno aggiungendo. Questa nuova edizione del centrismo in Italia dovrà evitare suggestioni facili che provengono dalla storia mal compresa della forza elettorale della DC, che era composta da un notevole componente di votanti di destra e reazionari in certi casi. Un grande centro non credo sia ricostruibile in Italia, la sua forza elettorale è certamente limitata, e inoltre, il moderatismo rischia sempre di porsi come subalterno alle culture più retrive delle destre. Se questa subalternità si dispiegherà pienamente nei comportamenti politici e tattici, allora, il centro non farà molta strada e non potrà essere molto utile al paese. Per il resto chi ha più filo da tessere farà più tela. Staremo a vedere.

Alessandria 03-03-2023                                                           Filippo Orlando

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