“Nulla volere, sapere, avere”. Note sul libro di Francesco Roat su Meister Eckhart

Francesco Roat – saggista, narratore e critico letterario trentino – è ben noto al mondo della cultura, ma anche ai lettori di “Città Futura on line”, come autorevole commentatore e autore. Nei suoi libri si è occupato con passione pari alla competenza di autori tutti tra loro misteriosamente collegati, come Meister Eckhart, Angelus Silesius, Goethe, Hölderlin, Nietzsche e Rilke – in base ad una vocazione alla full immersion nella poesia e nella filosofia, con conoscenza profonda, di prima mano, soprattutto della cultura tedesca. Direi che il punto chiave della sua ricerca, che attraversa come un filo rosso tanta parte del suo lavoro intellettuale, sia la mistica. Questa, per lui, non è solo un campo di studio, ma con ogni evidenza una profonda dimensione esistenziale. La mistica, naturalmente, è quella tendenza che induce chi la viva non solo ad interessarsi dell’infinito, eterno amore ritenuto alla base della vita stessa, ma a ritenere di poterlo essere, ove mai riesca ad arrivare alla prima radice di sè, solitamente detta Dio (ma il nome poco conta). Insomma, non solo la mistica – ogni mistica di qualsiasi luogo e tempo – s’interessa dell’essere, o prima radice del reale e della mente, alias di “dio”,ma ritiene che l’essere umano possa “esserlo”: accedervi, immergendosi nel più profondo di sé (realizzando quello status che Leopardi, nell’Infinito, nel 1819 enucleava nel verso “E naufragar n’è dolce in questo mare”, e Ungaretti, in Allegria, nel 1917, nel verso “M’illumino d’immenso”, ma nel vero mistico in modo tendenzialmente “normale”, da “rinato” che si senta fuso naturalmente col suo dio o natura o infinito) . E qual via migliore, in proposito, per investigare a fondo tale ambito, dell’ immergersi totalmente negli oltre cento sermoni del mistico tedesco medievale Eckhart, solitamente detto Meister Eckhart, totalmente contemporaneo di Dante (il nostro poeta nacque nel 1265 e morì nel 1321, mentre Eckhart nacque nel 1260 e morì nel 1328), vagliando in particolare i suoi oltre cento sermoni (per cui si rinvia a: Meister Eckhart, I Sermoni, a cura di M. Vannini, Edizioni Paoline, Milano, 2002, e I sermoni latini, a cura dello stesso, Le Lettere, Firenze, 2019), come Roat fa nel suo recente libro Nulla volere, sapere, avere. I sermoni di Meister Eckhart, Le Lettere, 2022 (pagg. 221, E. 18)?

Il problema è di filosofia religiosa, ma lo è con un approccio diverso da quello dimostrativo dell’altro grande domenicano del Medioevo, Tommaso d’Aquino, l’autore di Summa theologiae del 1265/1274 (Edizioni san Paolo, Milano, 1999, pagg. 2850), autore delle famose prove dell’esistenza di Dio, che specie dopo Hume e Kant per i più non sono più tali, anche se la Chiesa cattolica ne ha fatto da secoli, e specie da Pio IX in poi, la rocca della verità. Ma lo stesso campano Tommaso, come mi fu confermato a Bologna da un suo grande studioso, allorché nell’ultima fase della sua vita ebbe alcune esperienze mistiche, estatiche, disse che tutto quello che aveva scritto era “paglia” rispetto a quello che infine aveva “visto”. Assai probabilmente ne seppe qualcosa pure il nostro Dante, quando nel XXXI canto del Paradiso vide la “candida rosa” dei beati e, guidato dal più grande dei mistici, san Bernardo, tramite preghiera alla Vergine Maria, accedette alla mistica visione di Dio, che chiudeva la Divina Commedia. Quando noi abbiamo studiato tali cose, le avevamo ovviamente percepite come pura letteratura, mentre proprio riflettendo su Eckhart, e sull’Eckhart di Roat, c’era certo – come di solito si dice retoricamente – “ben altro”. Probabilmente il poeta aveva veramente sognato di vedere la luce di Dio.

Mi viene in mente che al problema del divino – infinito, eterno, amore (cosa o “chi” esso sia per ognuno di noi) – si può provare ad accedere per tre vie: una puramente filosofica, una psicologica e una mistica.

La via filosofico pura, o puramente razionale, da Kant a Sartre e oltre – salvo eccezioni in senso o teistico o ateistico, direi teoreticamente tutte deboli – perviene soprattutto all’agnosticismo (che sul “divino” sa di non sapere).

La via psicologica, dal 1912 in poi tipicamente junghiana, volge la bussola dell’agnosticismo verso l’alto o “Dio”: non già dicendo che c’è, ma che in noi c’è a priori, come simbolo e mito, in termini di antropologia psicologica. C’è, o vi sarebbe in noi, una sorta di allure del divino. C’è – o vi sarebbe – un’”impronta originaria” (archetipo), che c’è sempre stata, e che ivi è detta Sé: la nostra universalmente umana e però personalissima idea del divino; una religiosità che c’è sempre stata. Questo si vede (o vedrebbe) bene in tanti “grandi sogni”, o anche in folli visioni dei cosiddetti dementi, che evidenziano o evidenzierebbero un patrimonio simbolico universalmente umano, presente con variazioni infinite ma minime sempre e dappertutto, in miti religiosi similari. Su ciò è da vedere il fondamentale grosso volume XI delle “Opere” di Jung, “Psicologia e religiose” (Bollati Boringhieri, Torino, 1979). Lo junghismo, imbevuto di filosofia kantiana oltre, e forse persino di più, che schopenhaueriana e nietzscheana, non volle mai compiere il passo del dire che l’impronta del divino (archetipica), fonte di miti “religiosi” perenni, provasse l’esistenza del divino stesso; per esso semplicemente vi accennava, quale fosse – o sia – la natura ultima del divino stesso in sé e per sé (cioè come “essere”).

La via mistica mi è sempre parsa contigua a quella psicologico analitica indicata, tanto che in una relazione da me tenuta a un convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica svoltosi a Palermo nel 2013, io sostenni che lo junghismo era lo yoga nato a Occidente: la via al Sé (pur con la riserva cui accennavo sulla natura di credenza mentale, ma non necessariamente reale, del Sé: il che però forse potrebbe valere pure per molti yogin). Ci sono punti di contatto. Così l’esperienza psichica del divino, che in sé non dimostra proprio niente, può mutarsi in contatto forte, tanto che Jung, in una famosa intervista alla BBC, a Freeman (che si piò vedere pure su You Tube con sottotitoli in italiano), interrogato nel 1959, due anni prima della morte, sul suo credere o meno in Dio, rispose dicendo che non aveva più bisogno di credervi: “adesso … adesso io lo so” (salvo poi ridimensionare altrove, come sempre, la conclusione ontologica, sull’essere dell’Essere, ossia dell’esperienza psichica religiosa). Il mistico è uno convinto, e alla fine certo, che il nostro piccolo essere si possa spalancare sull’Essere, sino ad esserlo. Eckhart è stato per la mistica quel che Dante Alighieri è stato nella letteratura, almeno secondo il maggior traduttore, studioso e presentatore italiano di Eckhart, Marco Vannini, che scrive pure la “Presentazione” del libro di Francesco Roat in oggetto.

Eckhart riteneva che Cristo non fosse solo il Logos in senso forte, insomma “Dio”, ma che chiunque potesse cristificarsi, scoprire Dio in sé stesso, esserlo. Lo mostrava commentando in tale chiave i testi congrui dei Vangeli (specie il IV) e di San Paolo, ma pure diversi testi di Agostino. Si poteva accedere alla teosi, ossia alla divinizzazione di sé, non già attraverso la demoniaca divinizzazione dell’Io (dal “sarete come Dio” del serpente del Genesi a ogni presunzione, arroganza, apoteosi dell’Ego, che oggi la psicologia analitica chiama “inflazione dell’Io”, ma per la via specularmente opposta). Ci si dovrebbe sbarazzare – e più lo si farebbe e più il divino si farebbe presente – di tutto il piombo sulle ali che impedisce allo spirito di volare “al Cielo”, attaccandolo perciò ad una materialità che come una pesante zavorra lo estrania al divino. Non lo estrania al divino perché questo abbandoni l’essere umano, ma perché un sacco di cose vane distraggono tale nostro essere e gli impediscono di raggiungere il punto di “luce”, il deus che è prima radice.

Ecco il senso del “nulla volere, sapere, avere” cui il titolo “eckhartiano” del libro di Roat accenna. É la via detta della kenosi, cioè dello “svuotamento” (tolgo l’attaccamento alla materialità e all’Ego narcisistico, e allora lo Spirito emerge; e se no, no). È il punto chiave delle “Beatitudini” secondo Matteo: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. I poveri sono pure i poveri (e infatti nel Vangelo di Luca, nelle “Beatitudini”, si dice puramente e semplicemente “i poveri”, con allure più nettamente pauperista), ma nell’accezione di Matteo sono i poveri “a causa dello spirito”, ossia che non vogliono avere niente perché solo se non sono attaccati a niente il primato dello Spirito può emergere. Questo spirito, oltre che infinito ed eterno, ivi è pure “agàpe”, in riferimento alla prima Epistola ai Corinzi di Paolo: “agape” che giustamente Roat propone di tradurre sempre come amore, e non come “carità”, che sa di “elemosina” (p. 88 e n.). L’amore attivo del prossimo, “quasi uguale” a quello per Dio, per il “grande comandamento” evangelico, è derivato dalla teòsi. Se mi sento nell’infinito, eterno, amore, libero da ogni attaccamento, al pari dell’infinito eterno amore che tutto include, e che come prima radice è pure in me, amo tutti perché tutti includo in me. Lo svelamento della teòsi – ossia il diventare puro Spirito, divino, “Dio”, non nella mia gloria, ma giungendo al Nulla o Vuoto “pieno” che è poi “Dio” – mi apre all’amore di tutto e tutti nell’Uno, che è; e lo sono pure io, ma nel punto alfa-omega che è la mia quintessenza. In tal caso mi si apre (o aprirebbe), pure la gioia estatica di essere, e non solo di assomigliare o tendere, l’infinito, eterno amore che chiamo “Dio” (ma non è il nome che conta, ma il genere di percezione profonda di tale dimensione, poi sempre pulsante). Certo per Eckhart era pure Dio in senso forte, trascendente (siamo sempre nel XIV secolo), ma prima che tale il Dio della teòsi era immanente, latente nell’essere umano come una misteriosa presenza. Al proposito Roat si connette al “panenteismo”, che non è il panteismo (Dio come sinonimo del Tutto-Tutti, neanche come Tutto-Tutti sinonimo di Dio), ma sta a significare che il tutto-tutti non è Dio, ma è sempre “in Dio”.

È certo che in tal caso – dico io – il male o è in Dio (Jung direbbe come “Ombra” del Sé, una specie di buco nero dell’Essere) oppure deve essere in Dio come un quid o quis, uno cosa o un chi, redimibile, nella sua particolarità solo oscurata, per la sua stessa finitezza.

Infine ci sarebbe da vedere come nell’essere Dio l’Essere che tutto e tutti include, sia possibile la “caduta”. Di solito è richiamato l’essere “libero” di ogni essere nell’essere, ma se Dio è Uno, e gli esseri ineriscono nell’Essere, come può un essere in tale Essere volgersi contro Dio? Non è sempre “Lui” l’Essere cui tutti ineriscono come le parti al Tutto o Uno?

Ma forse il rapporto tra contingenza ed eternità, ente ed essere che l’include, materia e spirito, o onda e coscienza, travalica ogni opposizione tra Uno e molteplice e molteplice e uno, superando i tre monoteismi, ma pure l’opposizione tra essere e non-essere, Assoluto e mondo dell’apparenza (o Maya) dell’induismo e buddhismo. Forse la relazione tra contingenza ed eternità sarebbe da ripensare, come aveva soprattutto cercato di fare Nietzsche dicendole Uno: un Nietzsche su cui non a caso Heidegger tenne corsi dal 1936 al 1946 (poi raccolti nel suo Nietzsche nel 1961, tradotto e curato da Franco Volpi per Adelphi nel 1994). Nietzsche però, quando era prossimo alla sua teòsi dionisiaca, neo-dionisiaca, fu fulminato dalla follia a Torino nel gennaio 1889. Ma non è detto che ogni nuova teòsi, vero “coitus interruptus” nell’irruzione dello Spirito “nietzscheano” (o d’altri), non possa essere seguitata, facendo pure tesoro dei mille erramenti dei filosofi e persino di eventuali truci epigoni nel “lungo sentiero” della Storia. Amen.

————————————–

Qui finisce la mia vera e propria recensione del libro di Francesco Roat. Ma ad edificazione dei nostri lettori, ed anche per indurli a procurarsi il libro, propongo loro alcuni passaggi che mi hanno particolarmente colpito, solo a tratti con parole “minime” per contestualizzarli.

“Senza troppo girarci intorno, Eckhart propone la sua ricetta spirituale – innumerevoli volte reiterata nei Sermoni – per una piena salute dell’anima: ‘lascia andare te stesso e tutte le cose e tutto ciò che sei in te stesso, e cogliti secondo ciò che sei in Dio.’” (Lo dice nel Sermone 24 al par. 5, qui a p. 75).

“Chi vuole adorare il Padre, deve porsi nell’eternità col suo desiderio e con la sua speranza. C’è una parte più alta dell’anima, che rimane sopra il tempo e non sa nulla del tempo né del corpo.” (Lo afferma nel Sermone 26 al par. 2, qui a p. 81: con mia riserva dal “non sa nulla”, già richiamata).

“ … tu devi abbandonare te stesso e farlo completamente, così tu hai abbandonato rettamente” (Sermone 28, par. 3).” Ciò è detto pure morte mistica. Ma Roat spiega: “Solo che la mors mystica non è atto autodistruttivo, ma comporta solo la fine dell’egocentrismo, dell’ingeneroso solipsismo, dell’auto-idolatria; perciò è semmai apertura a un’esistenza nuova, possibilità di nascita dell’uomo nuovo, che non teme più la morte, né i patimenti che la vita comporta. Implica sentirsi parte di Dio – o della natura per chi si professa ateo -, di un tutto che ogni cosa/individuo comprende. L’io non è più visto come altro dal tu (da ogni tu).” (P. 90).

“Io ho talvolta parlato di una luce, che è nell’anima, che è increata ed increabile.” (Sermone 48, par. 4, qui p. 116).

“… io ritengo proprio che l’anima (…) nella sua sommità e nella sua parte più pura non ha niente a che fare con il tempo.” (Sermone 50, par. 4, p. 116).

“E pertanto io non sono mai nato, e per la ragione del mio non essere nato, io non posso mai morire. Per la ragione del mio non essere nato, io sono stato in eterno, io sono ora, e devo rimanere in eterno.” (Sermone 52, par. 15, qui p. 123).

“Non si va (non si deve andare) quindi a caccia di Dio – ciò è impensabile -; si tratta, eckhartianamente, giusto di accoglierlo nel fondo dell’anima, dove è possibile re-invenirlo una volta che essa sia stata svuotata dal ciarpame egoico che la ingombra (p. 132).”

“Dio è qualcosa, in cui tutte le creature necessariamente devono essere.” (Sermone 100, par. 6, qui p. 180).

“Che Eckhart sia stato un sottile psicologo, è già stato qui evidenziato. Ma ciò che più colpisce in questo uomo di chiesa medioevale è il moderno rifiuto di concepire il male compiuto quale frutto di una colpa, ritenendolo piuttosto un errore – effetto di un errato discernimento, come direbbero i Gesuiti (che sono inclini a concepire il peccato solo quale hamartia, sviamento erroneo, sbaglio) – o forse meglio: un tentativo, sia pur fallace, di ottenere il bene (p. 143).”

Viene citato il saggio di Raimun Panikkar Mistica, pienezza di vita (2008), nel punto in cui diceva: “L’intuizione mistica è un’esperienza tanto amorosa quanto conoscitiva – vale a dire che tocchiamo la realtà con la conoscenza e con l’amore. La mistica ‘scopre’ che è un solo tocco. (…) L’esperienza mistica, la visione del terzo occhio non separato dagli altri due, ci lascia sentire la luce folgorante che abbaglia l’intelletto senza per questo distruggerlo.” (p. 187).

Concludo con una citazione più ampia, che trovo deliziosa, forse perché nel mio ultimo libro Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (Moretti & Vitali, Bergamo, dicembre 2022), mi sono “triplicato” in tre punti di vista (Religiosus, Atheus e Psychicus). Eckhart, nel sermone 113, I, par. 5-21, scriveva:

“La conoscenza dice (ad amore): cosa puoi amare di ciò che non capisci?

L’amore dice: cosa giova che tu capisca molto, ma non ami? Se non ami, non raggiungerai mai la beatitudine eterna.

La conoscenza dice: sono nata nella luce chiara in cui posso capire me stessa.

L’amore dice: se tu capisci molto ma non hai amore, in questo la tua comprensione non ti aiuta.

La conoscenza dice: devi andartene. Tu non sei altro che il mio servo. Tu mi aiuti ad elevarmi ma resti in basso!

L’amore dice: io sono il bene, il che è Dio stesso.

La conoscenza dice: tu ti ritieni molto elevato. Ma dove io non sono, tu non puoi realizzare nulla.

L’amore dice: devi mettermi alla prova meglio.

La conoscenza dice: io sono elevata più in alto rispetto a quando sono unita a te. Una conoscenza più forte brilla in me. Non ho bisogno di te (…). Ora mi trovo sopra di te, amore, e sopra tutte le opere.

La conoscenza dice: (…) La fede e la speranza e tutte le potenze dell’anima devono essere lasciate indietro. Non possono andare oltre.

Il vero amore dice: devo restare con te, perché sono eterno. (…)

Qui interviene la comprensione suprema, che riceve apertamente tutte le cose da Dio, e dice: ho sentito il bene supremo, dove nulla può essere se non l’unità.

La conoscenza dice: Io devo rimanere, e tu mi devi lasciar restare con te.

La comprensione (suprema) dice: conoscenza e amore, dovete rimanere (insieme)!

La conoscenza dice: io devo giustamente godere di ciò che ho conosciuto.

L’amore dice: io devo giustamente godere di ciò che ho amato.

La comprensione suprema dice: rispetto chi mi avete condotto e che ho riconosciuto fino ad ora: quello ora si conosce in me e chi ho amato fino ad ora, ora si ama in me. “ (Sermone 113, 1, par. 5-21, e qui pp. 202-203).

di Franco Livorsi

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*