Per chi suona la campana dei sondaggi

È presto, molto presto per sapere come andrà veramente il voto in Campania in primavera. Sei mesi prima del referendum del 2016, Renzi era in netto vantaggio. E sappiamo come è andata a finire. Anche se si trattava di una scelta molto più semplice – si o no a una riforma costituzionale – mentre tra i campani e le urne ci sono ancora una serie di incognite. Vediamole. Per poi dare uno sguardo più informato ad alcune indicazioni che comunque emergono dai numeri.

La prima incognita riguarda gli effettivi schieramenti in campo. Necessariamente – a questo stadio – si parla di centrodestra e centrosinistra, più i Cinquestelle che non si sa ancora se e come correranno. Se andassero da soli, è probabile che l’attuale pronostico verrebbe ridimensionato, perché considerati perdenti. Se optassero per la desistenza, per gli altri poli si aprirebbe una prateria, dagli esiti inevitabilmente molto incerti. Ma non è detto che, coalizzandosi con il centrosinistra, gli porterebbero la vittoria. Come si è visto in Umbria, il totale – direbbe Totò – non è la somma.

A complicare molto le addizioni – e le probabili sottrazioni – interviene la seconda incognita. Il fatto che il voto regionale non sia un voto d’opinione, mentre lo sono – per natura – i sondaggi. Alle europee e alle elezioni nazionali – ma anche, ovviamente, nelle città – contano soprattutto i leader. La loro capacità di catturare il consenso con l’immagine e la popolarità. Nel voto regionale pesa molto di più un’altra variabile: la rete dei rapporti faccia a faccia – e casa per casa – attivata sul territorio dall’esercito dei candidati nelle liste. Ecco perché il voto alle liste civiche finisce con l’essere più importante di quello ai partiti nazionali. Prendete il voto del 2015. De Luca vinse col 41%, a fronte del 19 del Pd: la differenza la fecero un nutrito gruppo di liste minori ad hoc. Saper tessere la tela delle liste si rivela, alla fine, più prezioso che essere popolare nei sondaggi.

Ciò premesso, alcune considerazioni questi numeri comunque le suggeriscono. La prima è che Forza Italia, in Campania, sembra conservare ancora il primato nel centrodestra. La Lega non sfonda, mentre crescerebbe – di molto – l’estrema destra di Giorgia Meloni.  La seconda è che il Pd tiene. Questa è una buona notizia per De Luca. Ma anche per quanti – nel Pd – vorrebbero farne a meno. E sfrutteranno – potete giurarci – la popolarità di Costa per fare intravedere, in coalizione con i Cinquestelle, una affermazione a gonfie vele. Ripetendo – perseverare sinistrum – l’errore clamoroso di D’Alema quando pensò, alle regionali del 2000, di battere in tutta Italia Berlusconi visto che i sondaggi gli davano un vantaggio perfino in Veneto. Un errore che gli costò le dimissioni da Palazzo Chigi.

Infine, tutti questi calcoli si infrangono contro il muro di nebbia del futuro politico nazionale. Dovesse cadere il governo, e tornare in sella Salvini, c’è qualche lettore che pensa che questi dati reggerebbero ancora? O, per stare a un evento più vicino e già calendarizzato, cosa succederebbe se, a gennaio, in Emilia vincesse il centrosinistra o il centrodestra? Fermo restando quanto abbiamo detto sul basso peso del voto d’opinione rispetto a quello territoriale, lo tsunami di Bologna si farà comunque sentire fortissimo in tutta Italia. O per mettere in ginocchio il Pd, o per rilanciarlo alla grande.

Mauro Calise
(“Il Mattino”, 19 novembre 2019).

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