Zingaretti e il Corsaro Nero

Ho seguito in streaming, il 17 marzo, tutta la storica Assemblea nazionale del PD che ha ufficialmente incoronato, come segretario, Nicola Zingaretti. Molte cose mi sono piaciute e altre meno.

   È naturale partire dal discorso della corona del vincitore, Zingaretti, un leader forte del consenso di 1.035.000 votanti alle primarie (pari al 66% circa, contro l’11,9% andato a Giachetti e il 21% andato a Martina). Il nuovo segretario, chiaramente, non è quel che si dice un grande oratore, né tantomeno uno che venga elaborando un nuovo pensiero. Appare però come persona di forte e credibile buon senso. La sua forza potrebbe essere proprio l’affidabilità. La definizione di “padre” per il PD, datagli da Prodi, gli calza a pennello.

  Anche i riferimenti all’”umanesimo integrale” di Gramsci, quando l’”umanesimo integrale” è notoriamente di Maritain, e quelli che mettevano nello stesso sacco Antonio Gramsci, Aldo Moro, e Adriano Olivetti come se si trattasse di narrazioni intercambiabili mi sono piaciuti poco. Ho trovato che fossero troppo sommari e imprecisi, e troppo eclettici, ossia presi disinvoltamente un po’ qua e un po’ là, sapendo che in questa “società liquida” tutti quanti, oramai, sono di bocca buona perché con le idee “nun se magna”. (E invece secondo me sì).

   La cosa che mi è piaciuta di meno è stata la sostanziale rimozione del passato del proprio partito (a parte la buona causa del referendum, comunque rivendicata, sia pure di sorvolo; e rivendicata a ragione perché quella sconfitta ha cancellato, chissà per quanti anni, un vero assetto maggioritario bipolare, stabile e tendenzialmente monocamerale, e proiettato i suoi effetti nefasti anche sulle battaglie successive). Comunque il PD, da Renzi a Gentiloni, ha governato per quasi cinque anni, dal 2013 al 2018, non certo male: ha accresciuto l’occupazione; fatto ripartire l’economia, sia pure con il lento passo di chi ha un debito pubblico alto come il Monte Bianco sulle spalle; ha persino molto ridotto il flusso dei migranti; ha assicurato nuovi diritti civili sin lì mai visti; e non ha avuto un solo condannato tra i governanti in cinque anni. Anche se il vento di destra che soffia in tanta parte del mondo d’oggi e la pesantezza della situazione occupazionale interna hanno fatto registrare un diffuso scontento, che ha determinato la sconfitta del PD; e anche se sono stati commessi errori tattici di eccessiva personalizzazione della politica, o di scarsa cura interna per la forma partito, o di mancato “ascolto” – difficile ma imprescindibile – dei grandi sindacati dei lavoratori, il bilancio per me è stato molto positivo. Il tiro del PD sarebbe da correggere, ma non da invertire. Un po’ di bilancio, positivo oltre che critico, sarebbe stato bene farlo (anche se chi si è contrapposto al passato, e ha decisamente vinto, avrebbe potuto accentuare la critica). Tenersene alla larga sarà pure stato un modo di evitare di cercarsi “grane” interne, ma è stato anche una forma di rimozione eccessiva. Astenersi da tali bilanci è stato, insomma, un eccesso di prudenza. Ma questa prudenza forse corrisponde a un carattere da Quinto Fabio Massimo il “temporeggiatore” di Zingaretti, che potrebbe anche essere stato o essere la sua grande forza.

  Ciò posto, però, non siamo a scuola e non dobbiamo dare i voti a chi fa politica attiva per tutti, ma coglierne, per quanto possibile, le linee di tendenza. In tal caso la valutazione politica da dare mi pare molto positiva. Mi è parso molto costruttivo lo spirito da riorganizzatore unitario del PD di Zingaretti. C’è stata forte apertura alla rappresentanza equa delle minoranze in Direzione. C’è stata apertura a livello delle due vicepresidenti (una legata alla minoranza di Martina e l’altra di Giachetti). Mi è parsa costruttiva anche la tendenza al coinvolgimento e dialogo con tutte le forze – vuoi moderate e vuoi di sinistra – di opposizione all’attuale governo nazionalpopulista egemonizzato da Salvini. Il PD vuole tornare a “fare politica”, tanto nel partito (che va il più possibile unito, oltre che rinnovato) quanto tra forze politiche (nazionali e locali). Questo mi piace e credo vada bene, o che dovrebbe andar bene, per tutti i progressisti.

   Un ruolo decisivo sarà certo giocato da Paolo Gentiloni, sia perché il Segretario non sarà più necessariamente il candidato Premier del PD, e sia perché pare ovvio arguire che lo sarà invece il neo-presidente (appunto Gentiloni), eletto a larga maggioranza dall’Assemblea (dal 94% dei presenti). Concordo con Giachetti sul fatto che sarebbe stato meglio mantenere la scelta statutaria che voleva il Segretario come candidato Presidente, come accade in tutta Europa. Ma d’altra parte non è sempre la politica che segue le regole, ma sono spesso le regole che seguono la politica. Gentiloni non si è candidato come Segretario. Sarebbe stato meglio, ma non è stato un gran male. Anche lui, come già Renzi, è uno che ha più l’allure da uomo di Stato o di Amministrazione che non di partito, mentre Zingaretti – nonostante la brillante presidenza del Lazio – è uomo di partito almeno quanto uomo di governo (pare un tessitore di quella che una volta, nel PCI, chiamavamo “politica delle alleanze”, che uno – come ha fatto in tempo a essere vero pure per lui – apprendeva “sin da piccolo” come una specie di “buona retorica” comune); e credo che sarà anche un tessitore di buoni rapporti “tra compagni” per la “causa comune”, così da avere il minimo di contrasti – da destra o da sinistra – nel partito stesso. In tempi in cui urge la battaglia comune contro il populismo neo-reazionario, e dopo tante divisioni letali a sinistra, non è per nulla male coltivare tali attitudini. Guai a dimenticarsene.

   Inoltre va detto che a mio parere dovremo imparare a vedere il nuovo PD come una diarchia, quasi ci fossero due consoli: il segretario (Zingaretti) e il Presidente (Gentiloni) “uniti nella lotta”. Uno sarà l’organizzatore e il pacificatore, verso l’interno, ma anche tra gruppi e partiti “alleabili”. L’altro sarà il leader di governo del futuro. Ma credo che i passaggi li concorderanno insieme, e che Gentiloni abbia qualità da leader che sono state sottovalutate, ma che nei tempi medio-lunghi si faranno valere. Mai sottovalutare le acque chete, o la brace sotto la cenere.

  Per ora Zingaretti non è riuscito a coinvolgere nell’alleanza per l’Europa da Tsipras a Macron, che tutto il PD auspica, liste di sinistra democratica come + Europa della Bonino (a quel che ha detto Giachetti – che di radicali se ne intende – perché la Bonino non vuole aderire al Partito Socialista Europeo nel Parlamento della prossima Unione Europea, benché il “manifesto” di Calenda proponga di consentire alle liste alleabili di scegliere il gruppo definitivo di appartenenza dopo le elezioni). Comunque, nel PD, la sola idea di tornare indietro dalla “scelta socialista” fatta nel 2013 da Renzi sarebbe un’aberrazione. Il rischio che diverse forze, a destra o a sinistra del PD, nelle elezioni europee di maggio buttino via un cinque milioni di voti, non raggiungendo il 4% per entrare nel parlamento europeo, è molto alto. E chi ha amore per la sinistra dovrebbe da un lato deplorare soprattutto tale avventurismo politico, che in tempi come questi disperda milioni di voti progressisti, e dall’altro dovrebbe costruire ponti per evitarlo. Se Zingaretti si dà da fare in tale direzione, per me fa solo, puramente e semplicemente, il suo dovere. Per ora accade, o si prova a far accadere, in 4000 Comuni che andranno al voto: poi si vedrà. Una cosa è l’evitare le fusioni e una cosa è l’evitare i contatti, come chi non esca di casa per non prendere il raffreddore. Per me di unità democratica non ce n’è mai abbastanza, specie in tempi di marea nera che dilaga, purché l’unità sia tra diversi e non una marmellata informe che pretenda di cancellare le differenze, e purché, dal più piccolo Comune al Parlamento, i patti siano chiari, così da vincolare i contraenti a comportamenti responsabili. Tutti sono stufi di “alleati” che litighino dal mattino alla sera: ci vogliono patti chiari, negli obiettivi come nelle implicazioni sui modi di stare insieme, “prendere o lasciare”. Ma ciò posto ogni pregiudiziale ha poco senso.

   Rispetto all’Assemblea del PD del 17 marzo, il comportamento di Renzi è stato esemplare. Se ci fosse andato, sarebbe stato inevitabile un confronto polemico, al quale più d’uno l’avrebbe tirato per i capelli. Il focoso leader fiorentino avrebbe fatto la frittata. Invece ha assicurato “prima” il suo pieno sostegno sia a Zingaretti che a Gentiloni. In Assemblea su ciò i “renziani” si sono divisi, tra fedelissimi come Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Lorenzo Guerini e Andrea Marcucci, per non dire del battitore libero Carlo Calenda, molto unitari sia con Zingaretti che con Gentiloni, e 80 (su 120), dei 2000 circa presenti, della mozione di Giachetti che hanno preferito astenersi su Gentiloni (votato però dal 94%). A mio parere quelli che si sono astenuti si sono sbagliati. Non sparare sul pianista (Zingaretti) – io direi sui pianisti Zingaretti e Gentiloni – sino alla fine delle elezioni europee dovrebbe essere la “saggezza minima”. Lo ha detto chiaramente Marcucci al “Corriere della sera” del 18 marzo: “C’è il doppio test europee-amministrative: dopo giudicheremo la nuova segreteria”. Io andrei oltre, se fossi in loro. Dopo le elezioni europee il governo nazionalpopulista o cadrà subito o si troverà dentro una tempesta perfetta. Le elezioni anticipate arriveranno molto probabilmente, nell’autunno 2019 o nella primavera 2020. In tal caso una forte unità interna e dell’area progressista, pur nel confronto libero tra diverse opinioni, s’imporrebbe. Si tratta poi di trattenere ogni spinta conflittuale, anche “giusta”, al massimo per un anno. Ma le anime o animelle della sinistra, interne o esterne al PD, sapranno imparare a stare insieme da buoni amici almeno sino alle elezioni politiche anticipate?

   Non lo so. Quello che so è che, se non lo faranno, faranno solo il gioco del “Corsaro Nero”, Matteo Salvini, che aspetta la nave ammiraglia del PD dietro il promontorio per affondarla.

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